«Nugole de lana», il Floriani sconosciuto 

Nell’opera di Cesare Guardini, il poeta dialettale viene strappato dagli stereotipi con cui è stato sino ad oggi narrato


di Mauro Grazioli


RIVA. «Nugole de lana. Storie e divagazioni su Giacomo Floriani», questo il titolo del libro di Cesare Guardini che arriva a colmare una lacuna di lunga data. C’è voluto dunque un anniversario perché il poeta rivano potesse emanciparsi dagli stereotipi con una biografia capace di dar conto di una personalità complessa, di un uomo che ha percorso le tappe controverse di quello che è stato il secolo breve. Cesare Guardini lo ha fatto con sensibilità, sulla scorta di fonti anche poco note, cercando di entrare negli anfratti di una vita dalla scorza rugosa, entro la quale ha scorto la linfa vitale di una discendenza abituata a fare i conti con i magri frutti della quotidianità e con i sobri valori degli spazi d’altura, dove è possibile apprezzare l’essenza delle cose.

Guardini ha il pregio di approfondire senza retorica questi spazi, delineando il percorso di formazione del futuro poeta, un percorso di riscatto, radicato nel lavoro, nell’acquisizione di un sapere che non aveva potuto avere dallo studio, cementato dall’impegno sociale e politico fluente nell’alveo del pensiero socialista e irredentista, praticato in gioventù con diverse sfumature, fino a sfociare nell’adesione alla guerra, che Giacomo Floriani, volontario nelle file dell’esercito italiano, vede motivo di redenzione. L’autore delinea quindi le collaborazioni con “Il Popolo” di Cesare Battisti, con “L’Eco del Baldo” dei fratelli Miori, con altri giornali e riviste, fra le quali “L’illustrazione popolare adriatico trentina”, dove Floriani pubblica diversi racconti che prendono linfa da spunti di cronaca o da interessi di varia natura. Si tratta di una produzione sostanzialmente legata al gusto del primo Novecento: racconti di amori e di addii, quadri ricavati dalla vita dei quartieri rivani, esposizioni di gite in montagna, ingiustizie da denunciare e combattere. Una mistura alquanto zuccherosa, talvolta moraleggiante, della quale Cesare Guardini ci dà merito citando in particolare un racconto che ha per ambiguo sfondo politico la guerra di Libia; oppure un «bozzetto» dove Gilda, la protagonista abbandonata da Gino, il macchinista, emulerà il tragico epilogo della Karenina reso celebre da Tolstoj. Interessante anche il richiamo a Poesia montana il quale porta la dedica “Agli amici della Sportiva Benacense”, di cui Floriani è socio attivo, come lo sarà poi della Sat. «Io la conosco questa santa poesia montana, perché cento e cento volte io sono salito su, su, e ho girovagato per gli alti gioghi, inebriandomi delle grandiose purissime bellezze che ad ogni passo mi si presentavano allo sguardo», egli scrive, rivelando quella che sarà una costante del suo empireo poetico. «E nella estatica ammirazione di queste sovrane bellezze l’anima mia ha provato gioie sconosciute, desideri incomprensibili, sublimi incantamenti; mi son sentito più buono, più forte in quel silenzio divino e dal core fremente, lietamente scaturiscono ricordi cari, rimembranze gioconde, impulsi nuovi e mai sognate energie, innalzanti l’anima al di sopra della vita quotidiana, fatta di freddezze, disillusioni e brutalità».

È questo uno dei primi capitoli che Nugole de lana propone alla nostra attenzione, sul quale mi sono soffermato forse con qualche riga di troppo per segnalare un ambito poco noto della produzione di Giacomo Floriani. Per completarlo comunque bisognerebbe citare ben altro: i guizzi popolari della “Renga”, ad esempio; la satira de “L’argomento”; soprattutto l’apparire delle prime poesie. Composizioni che appaiono a partire quantomeno dal 1907 (si veda A Leano! su “L’Eco del Baldo”), per moltiplicarsi più generose negli anni dopo la guerra, allorché Floriani tornerà a Riva, dove nel 1919 prende servizio presso la Cassa Distrettuale di Malattia. Guardini mette in fila questi esercizi eponimi con precisa scansione; ne delinea l’evoluzione delle tecniche e dei contenuti, i rifacimenti più tardi, gli importanti apporti derivati dal sodalizio che Floriani stringe con Riccardo Maroni, suo editore e mentore per una vita. Ne rileva gli intenti e gli spazi conquistati su riviste e importanti giornali, le notazioni positive e negative che provengono dalla critica, i commenti dell’autore e del suo sodale, accedendo per questo a pagine già note e a un cospicuo quanto inedito epistolario conservato principalmente presso l’Archivio Storico di Riva del Garda e nel consistente Fondo Maroni della Biblioteca Civica di Rovereto.

Sulla scia di queste fonti, ancora con un intelligente lavoro di scavo Guardini passa poi in rassegna la produzione più nota: quella dei Canzonieri editi in distinte raccolte e poi raggruppati nel cosiddetto “libro rosso” curato e pubblicato nel 1982 da Riccardo Maroni al seguito di una più scarna edizione in due volumi del 1970. A principiare la strada di questo impegno poetico troviamo Fiori de montagna, del 1928. E via via gli altri quattro: I mé amizi de montagna, 1946; Montagne trentine, 1950; Da la mé baita, 1959; El mé ort de montagna, 1969. L’autore guarda a questa produzione ancora con ricchezza di fonti e competenza, evidenziando la genesi di molte poesie, il loro retroterra, il plurimo lavoro di lima, la consistenza sostanziale e formale, l’architettura delle edizioni. Annota il fluire asincrono dell’ispirazione, i momenti di grazia e quelli di stanca, anche le stagioni del tramonto, rispecchiate, con qualche eccezione, dagli ultimi due Canzonieri.

Ci sarebbero altre cose da mettere in luce. Basta scorrere l’indice per rendersene conto. Riguardano ad esempio la questione del dialetto, le prove delle traduzioni da Leopardi, i lavori teatrali, i problemi pratici delle diverse edizioni, le notizie sulla realizzazione della Baita a San Pietro, i premi e i riconoscimenti. In appendice l’autore ci parla anche del mondo di Floriani, delle sue “bestie”; riporta alcuni aneddoti, proponendo infine qualche componimento inedito che accentua i chiaroscuri del pencolante aedo montanaro. Guardini non forza la mano. La sua voce si fonde con quella del poeta, con le interlocuzioni di Maroni, con gli inserti dei critici e dei parziali detrattori. Il racconto si snoda corale, segue la prosa della vita e la musicalità della fuga in avanti, gli andanti e le pause nello stupore di una divinazione della natura che si ripete soprattutto in quel momént che no l’è né not né dì, nelle nugole vagabonde e sbrindolade che vagano a cavallo dei trapassi. Il giudizio è pertanto sfumato, lasciato perlopiù al lettore invitato ad addentrarsi nei bianchi e nei grigi di un’anima romita che cerca illusorio rifugio in un mondo fidato innocente, nelle pégore dai oci sereni, nella chiete fonda e piena de misteri, nella quale, come scrive Montale, le cose «sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto» per metterci «nel mezzo di una verità».

Giacomo Floriani si svela con una poesia forse non tutta luminosa, ma sostanza di un uomo che a cinquant’anni dalla morte con questo pregevole lavoro riemerge un poco più chiaro.

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