Giacomo Floriani e la poesia-monumento 

A mezzo secolo dalla morte, i versi del poeta rivano continuano a celebrare la sua gente e la sua terra 


di Cesare Guardini


RIVA. «I popoli si sentono orgogliosi dei suoi poeti perché interpretano i suoi affanni, le loro speranze. Perché hanno la virtù di raccogliere i desideri e le angoscie. La loro sensibilità è il ricettacolo di tutti i sogni ed i dolori del popolo.» Giulio, poi Julio, Crosina, falegname da Tiarno di Sotto, emigrato a Las Piedras, dove ha fatto fortuna, padrone d'una grande fabbrica con decine di dipendenti- appena ha letto sul giornalino degli italiani di Buenos Aires una poesia, “La me Baita” scritta da un Giacomo Floriani, perfetto sconosciuto, attraverso i “fagi alegri, dai cavei a la nazarena”, “el seziom de dré alla schena”, i “scorzi profumai de rasa” e le “zime postade l'una a l'altra” che “le polsa 'nnarzentade da la luna” ha rivisto la sua valle, boschi e prati, vacche e paesi, e lo stradone, i campanili e Riva, il Garda. La nostalgia, il male della lontananza, ha fatto scoprire e proclamare a lui, ignorante di belle lettere, le radici d'una poesia “popolare” che succhia da affanni e speranze, da desideri ed angosce, da sogni e dolori le parole capaci di riscattare la vita degli “ignoranti”.

Tutto quello che di Floriani, uomo e poeta, rimane si può considerare un monumento alla sua gente, ai mille e mille passati senza lasciare altra eredità che un pugno di memorie consumate nella cerchia della famiglia e poco oltre, nel giro di due generazioni. Un monumento fatto di parole, non quelle ridotte a mummie ed incasellate con la loro brava definizione nei dizionari della lingua italiana, quelle vive nel quotidiano delle case, delle strade, dei mercati e delle officine. Monumento al dialetto ed ai rivani dei primi decenni del Novecento, specchio d'una realtà fragilissima per una serie di circostanze: l'unificazione all'Italia facilita attraverso l'immigrazione dei regnicoli il contatto con altre culture ed altri parlati; il tentativo del regime fascista di plasmare masse omogenee non solo attraverso la scuola e la radio ma anche combattendo regionalismi dialettali troppo identitari; infine le trasformazioni sociali che comportano il tramonto di mestieri, valori, consuetudini e delle relative parole.

Nato nel 1889 da genitori contadini (i nonni erano pastori e di quelli si sente discendente), orfano di padre a quattro anni, prima di finire le cinque elementari va a lavorare come compositore nella tipografia Miori (editrice anche del trisettimanale Eco del Baldo), e lì viene in contatto con Cesare Battisti, da cui deriva le simpatie socialiste e l'irredentismo, e con Riccardo Maroni amico d'una vita più che editore dei Canzonieri. Volontario nella Grande guerra, militò nella 255esima compagnia del V Alpini (il battaglione Vestone). Tornato nella Riva liberata dal 1919 fu alle dipendenze della Cassa Malattia fino alla pensione, per quasi quarant'anni. Ventenne o poco più si cimenta nella scrittura: racconti improntati all'andazzo del tempo -amori tragici e donne fatali, chiome bionde fluenti prati verdi invasi di rosolacci- e qualche poesia: “Ricordi de ceregot”, la prima pubblicata nel '22 sul Gazzettino Illustrato gli fruttò 50 lire. A parte una decalcificazione della colonna vertebrale (la diagnosi lo rassicura: temeva di peggio, tbc o tumore) scoperta dopo i sessanta che lo costringe a portare per sei mesi un busto di gesso, “tafanari” da sei chili e mezzo, i cenni biografici sono ritmati dall'uscita dei cinque canzonieri e dalla baita che da “ensogni dei mé 'nsogni” è diventata realtà di malta e sassi, a mille metri sul monte Calino, affacciata sulla Busa e sul grande lago chiuso nella sue montagne. Canzonieri e baita realizzati dalla volontà di Riccardo Maroni, più che amico “arcifratello”, pilastro di un'amicizia che suscitò l'ammirazione (e forse un po' d'invidia, dati i rapporti con la gente di Grado) di Biagio Marin, a sua volta vicino, almeno del '49 in avanti, al poeta rivano. La costruzione della baita -costata fra liquidi e materiali poco meno d'un milione dell'epoca- è un esempio lampante del modo di muoversi di Maroni, convinto da Dostojewski che rendere felice un uomo dovrebbe essere un impegno categorico di tutti e persuaso di suo che le onoranze post mortem siano solo sceneggiate autoreferenziali, visto che nessun concreto vantaggio ne deriva al festeggiato ormai nella tomba. Ha mobilitato decine di volontari per raccogliere soldi (in un elenco di offerte alla Acli di Varone c'è un versamento di 2 lire), ha organizzato (con Giacomo Vittone) una mostra mercato di quadri in Rocca, ha contattato le sezioni Sat di tutta la provincia, tenuto conferenze alla Rai di Bolzano ed al circolo di trentini a Milano, ha chiesto tre abeti in omaggio al comune di Tenno per ricavarne i travi, i coppi all'amico Carloni (utilizzato anche per i traporti del materiale dalla Busa almeno fino alla Bellotta), ha ottenuto dall'ingegner Chesani, allora proprietario dei grandi magazzini di via Mantova a Trento, il cretonne per le coperte, da un rivano dirigente della Richard Ginori un servizio di piatti, dai suoi operai della Scac il tagliere per la polenta. Tutto documentato fino all'ultima lire: le carte sono al fondo Maroni dell'archivio storico a Rovereto. Floriani non c'era il 18 settembre 1949 alla consegna della baita, inchiodato a Riva dal suo catafalco di gesso, ma c'era dieci anni dopo per la festa del decennale (e dei suoi settant'anni) e c'è stato dal primo sbocciare della primavera fino alla prima neve sui prati di Tenera per quasi tutti gli anni che gli sono rimasti: il grazie più autentico per Maroni essendo la serena tranquillità d'una cospicua manciata di anni.

“Fiori de Montagna”, il primo Canzoniere -quello che ha subito insediato Floriani nell'olimpo dei poeti dialettali non solo trentini ma dell'intera Italia (lo testimoniano i riconoscimenti nel concorso di Sanremo e Bellagio, fino al secondo posto dietro Biagio Marin al premio Barbarani di Verona nel '52)- è uscito nel 1928, seguito ventun anni dopo dal secondo “I me amizi de montagna” e nel 1950 dal terzo “Montagne trentine” pubblicato in coda alle ristampe dei primi due, ormai introvabili e richiestissimi. In quei libri si trovano le poesie più belle di Floriani, quelle capaci di trasmettere quel senso d'incanto proprio della montagna. La montagna è quella fascia di territorio fra gli ottocento/mille ed i duemila metri dei monti intorno a Riva, con una spiccata preferenza per la zona che va da bocca Giumella al Doss della Torta e comprende San Pietro, la busa di malga Grassi, il rifugio Pernici, prati di Vender, sentiero della Regina, Tofino. Lì la natura incanta, mostrandosi nell'infinito stupore dei suoi eventi quotidiani: un'alba, un fiore, la pioggia sul tetto di lamiera d'uno stallone, un turbine di foglie secche. Eventi minimi come un sentore di fumo che dal camino d'una baita si disperde nei primi brividi dell'aria del mattino, o il ciuffo strappato dal vello d'una pecora passata troppo vicino ad un filo spinato, il mescolarsi dei colori d'un tramonto, l'incontro con uno scoiattolo nella boscaglia, o con una brisa bianca. Eventi coincidenti col brivido d'una emozione: gli occhioni dei bambini che nella notte di Santa Lucia attendono aperti il passaggio dell'asinello, o l'abisso nero di paura d'una tempesta sul lago. Eventi segnalati da accostamenti inediti di parole spesso tipiche del dialetto: la “nebbia... 'ngartiada, che se 'mpegna sui boschi e sui senteri”, le “galine 'ncucae de primavera”, la quale primavera ”la slonga senza reve/ le braghe ai dì novizzi”; l'odor che 'ngrassa del brobrusà. Si potrebbe continuare a lungo, fino al “passa l'arcobalem de 'na farfala” dell'ultima poesia che Floriani ha scritto, “I granzoni” che portano la data del 22 giugno 1961.

La metafora estende i significati della parola: nello stesso modo gli eventi, frammenti d'un presente condannato a finire, si insediano nel tempo, dentro il solco delle generazioni, fino a risalire all'innocenza delle origini: come la Moreta, sentendo “ 'n del sangue la so raza”, ritrovava sui monti il “mondo stupendo dei so veci”. Questa la funzione della poesia, questa la forza della montagna dove, cancellato ogni segno d'uomo, si recupera il contatto immediato con la natura.















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