Paolo Manfrini, giornalista e manager, ma soprattutto costruttore di sogni e di idee



Aveva un’intelligenza scanzonata, Paolo Manfrini. Guardava la vita negli occhi. Con uno sguardo insieme colto e disincantato. Pop e sofisticato. Con la capacità di sdrammatizzare ogni cosa e di prendere sul serio tutto. Sempre in bilico fra il sorriso lieve e la profondità. E così come sapeva dialogare con la vita, riempiendola di idee, di suggestioni, di iniziative, riusciva a parlare con la morte: la guardava in faccia; non la temeva. L’aspettava: vivendo ogni giorno come se fosse il primo e insieme come se fosse l’ultimo. Insomma, l’attendeva a modo suo: ignorandone fino all’ultimo istante l’esistenza. Già, l’esistenza della morte: sembra un ossimoro. Un paradosso. Ma Paolo Manfrini - morto l’altra notte nella sua Rovereto, sconfitto ma non domato da un brutto male - amava i paradossi, i ribaltamenti, i colpi di scena, l’imprevedibilità, le emozioni vere, le contaminazioni.

Ha fatto di tutto, Paolo: sempre con la capacità di essere pienamente impegnato in una cosa, ma anche con un piede e un frammento di immaginazione in un altrove. Giornalismo. Cultura. Turismo. Eventi. Politica. Amicizia. E gusto: per le storie, per i sapori, per i modi di vivere, per le persone. In lui tutto si mischiava continuamente, in un mazzo ci carte, di pensieri e di curiosità che teneva sempre nella tasca della sua fantasia.

Per me, per noi, era un collega: l’ex capo della redazione di Rovereto del nostro giornale. Ma era anche un amico. Un compagno di viaggio. L’uomo col quale si passavano serate indimenticabili, saltando fra mille argomenti. Era il complice di molte iniziative, di altrettante vetrine dell’immaginazione. Ma era anche molto altro: un motore di cultura squisitamente locale e grandiosamente internazionale. Giocava su più registri: dalla filodrammatica - tradizione che aveva nel sangue, trasmessa non solo per vie paterne - a Oriente Occidente, ai Suoni delle Dolomiti, alle albe con gli scrittori o con i grandi artisti di questo tempo senza tempo, alle mille iniziative che aveva inventato o sostenuto.

Credeva in un turismo alto e insieme spensierato, spiazzante: una sorta di trasposizione del suo modo di vivere, di pensare, di interpretare i suoi vari lavori.

Quando Mario Malossini - allora assessore ambizioso al turismo ancor prima che presidente di un Trentino che oggi sembra appartenere ad un altro secolo - ed Ettore Zampiccoli, che guidò quell’armata che correva verso un domani tutto da inventare e da promuovere, lo strapparono al nostro giornale per portarlo all’Apt del Trentino (che poi guidò, nell’epoca in cui già si chiamava Trentino marketing), Paolo Manfrini s’inventò non solo un lavoro, ma anche un nuovo modo di proporre il Trentino, un altro modo di fare il giornalista: da dentro, proponendo e costruendo ciò che fino al giorno prima aveva spesso raccontato proprio su queste pagine. Ma sempre aggiungendoci qualcosa. Sono nati così, a ben guardare, molti suggerimenti che poi sono diventati esperimenti e grandi successi. Copiati da molti. Invidiati da tanti. 

Il suo trucco - anche quando gli chiedevano di impegnarsi in politica, magari per fare il sindaco della sua città - era quello di abbattere le barriere fra sogni, lavoro, interesse. Non c’era un pubblico, un privato, un intimo, un collettivo: i piani, sormontandosi, gli hanno sempre permesso di riempire d’entusiasmo e di energia travolgente ogni suo passo. Aveva la capacità di farsi coinvolgere da tutto, riuscendo comunque a restare un passo più in là: in un apparente distacco - che talvolta faceva impazzire chi gli chiedeva di mostrare la faccia dura che non aveva - dalle cose terrene, effimere, passeggere.

Protagonista di molte stagioni e insieme comprimario attento a non far ombra: al presidente, all’assessore, al compagno d’avventura. Il suo garbo lo ha aiutato ad affrontare stagioni molto diverse fra loro. Col sorriso. Insieme ironico e beffardo. Con quell’aria e quello stile inconfondibile che non l’hanno abbandonato sino all’ultimo. Anche nelle ultime telefonate e nelle ultime chiacchierate di pochi giorni fa, quando mi parlava con passione di Oriente Occidente e di quel futuro, all’apparenza infinito, nel quale in fondo ha abitato da sempre. 

Paolo Manfrini lascia dietro di sé una bella famiglia, una grande tribù professionale che gli è sempre stata vicina, tanto entusiasmo e ben poche delusioni. E una malinconia inattesa, che forse non gli sarebbe piaciuta. Perché non amava le cose retoriche, appiccicose o mielose. Sì, una strana malinconia con la quale da oggi dovremo però tutti fare un po’ i conti. 

 













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