La lezione antifascista di Ferrari
Tra i leader del popolarismo cattolico, sosteneva che la Chiesa poteva svolgere la sua missione di annunciatrice del Vangelo solo nella libertà. Scrisse in una lettera aperta ai parroci: «Vostro dovere è parlare se l’ingiustizia trionfa nella società» (foto tratta da www.centroferrari.it)
E' stato un gigante dell’antifascismo. Oggi è dimenticato. Francesco Luigi Ferrari, figura di primo piano del popolarismo cattolico, è stato un irriducibile avversario del regime, in Italia finché poté, in Belgio e poi a Parigi da rifugiato, fino alla morte, avvenuta nel 1933 a soli quarantatré anni. Il suo coraggio, la sua acutezza intellettuale e politica, la sua profonda spiritualità, la sua coerenza possono insegnare molto a tanti cattolici di oggi che cercano riferimenti per uscire dalle secche in cui sono finiti, al punto da consegnare a Berlusconi la rappresentanza in Europa del popolarismo italiano. Uno sfregio da far rabbrividire. Tanto più che questa caricatura del popolarismo è la prima alleata del leghismo, la nuova estrema destra. Nato a Modena nel 1889, Ferrari fu attivo nell’associazionismo cattolico prima di impegnarsi nel sindacato e nella cooperazione. Si scontrò con gli agrari, subì anche un pestaggio da parte di socialisti estremisti. Avvocato, dopo la partecipazione alla Grande Guerra militò nel Partito Popolare e ne divenne uno dei leader. Nel dicembre del ’22 fondò una battagliera rivista, “Il Domani d’Italia”, per opporsi al fascismo e contrastare quegli orientamenti del mondo cattolico e della Chiesa favorevoli a un accordo con Mussolini che si candidava a essere il difensore degli interessi religiosi, mentre calpestava diritti e libertà. Per Ferrari la Chiesa poteva svolgere la sua missione di annunciatrice del Vangelo solo nella libertà, non nell’asservimento a un potere che le prometteva garanzie e privilegi in cambio del silenzio e del consenso. E non ci poteva essere libertà della Chiesa in un paese oppresso: la libertà era indivisibile. «Meglio morire liberi che vivere schiavi», scriveva sul “Domani d’Italia”. Si sa come poi andarono le cose. Il Vaticano scelse Mussolini e il Partito Popolare fu liquidato. Il suo leader, don Luigi Sturzo, costretto all’esilio a Londra. Degasperi rifugiato nella Biblioteca vaticana e obbligato al silenzio.
Lo stesso Ferrari, dopo aver combattuto con tenacia il regime, tra l’ammirazione di molti, tra cui Gobetti, e dopo aver subito aggressioni personali e assalti squadristi alla sua abitazione e al suo studio, riparò nel ’26 in Belgio lasciando a Modena la moglie e i figli. Teneva famiglia, ma anche una coscienza cui mai rinunciò. Conseguì il dottorato di scienze sociali all’Università cattolica di Lovanio discutendo la tesi “Il regime fascista italiano”, subito pubblicata, una delle prime riflessioni degli esuli sul regime. Per Ferrari, in sintonia con la riflessione del laico Salvemini, di cui fu amico, il fascismo non era un fenomeno transitorio, perché nasceva dalla storica debolezza democratica degli italiani e da una loro costante propensione al compromesso come «trasformismo permanente». Ferrari fondò riviste, in collaborazione con gli esuli liberali e socialisti, tenne i contatti con Sturzo, che lo voleva suo successore, partecipò agli incontri internazionali dei partiti di ispirazione cristiano popolare. Si oppose ai Patti Lateranensi del ’29. A chi diceva che il Concordato avrebbe addomesticato, “normalizzato” il fascismo replicò che «la sola normalizzazione era la distruzione del regime fascista, vera negazione di Dio anche quando si presenta nella veste di difensore della religione».
Scrisse in una lettera aperta ai parroci: «Vostro dovere è parlare se l’ingiustizia trionfa nella società». E a padre De Rosa della “Civiltà Cattolica”, organo ufficioso del Vaticano: «Coloro che volontariamente assumono la missione di “dire la verità”, di ammaestrare i loro fratelli nel giusto e nell’ingiusto, di difendere e propagare una dottrina di amore, di pace, di perfetta giustizia, non possono, non debbono tacere, le quante volte ravvisano negli atti dei governanti una violazione di quelle dottrine che essi si sono votati a difendere nel corpo sociale. Tacere è rendersi complici del delitto, più efferato se rivestito delle forme della legalità». Parole di drammatica attualità.