L'Italia di oggi (e del giorno di Pasqua), in una vignetta
In una vignetta del caustico Vauro c’è il riassunto fulminante e dissacrante dell’Italia di oggi. C’è l’Italia cattolica, spaesata, che celebra la Pasqua dell’assenza e della solitudine, come se la resurrezione fosse un fatto intimo e interiore. Si può essere prossimi anche restando lontani, dice l’arcivescovo di Milano Mario Delpini. «Dobbiamo essere casa-centrici e non più chiesa-centrici», dice invece il vescovo Giancarlo Bregantini, vedendo nelle nostre case il punto da cui ripartire. Una sfida nella sfida, quella di una lontananza che è come una ferita che non si rimargina, quella di una speranza da ricostruire come un mosaico di famiglia.
Nell’immagine di Vauro c’è anche l’Italia spiritosa e un po’ sacrilega che riesce a scherzare su tutto e a guardare il mezzo bicchiere pieno anche in questo tempo sospeso. C’è l’Italia di chi ci cura in ospedali sempre più simili a quelli dei film di fantascienza. C’è l’Italia che aspetta, che spera, appesa al filo della vita. Costretta a stare lontana da chi soffre.
Nella vignetta ci sono due sanitari. Il primo - bardato di tutto punto - dice al secondo, allargando le braccia fra la meraviglia, la gioia e lo stupore: «È risorto!» L’altro, stanco e trasandato, barba da fare, con la mascherina che non gli copre interamente la bocca, si gira, quasi a guardare l’altra parte del mondo. E grida: «Si è liberato un posto in terapia intensiva!»
C’è proprio dentro tutto. Fede e fiducia. Capacità di celiare sul dramma e di guardare in faccia il Cristo di oggi, che è negli occhi di chi vive in corsie e reparti che si sono fatti Chiese di tutti e per tutti. Credenti e laici. Sembra quasi di sentire il silenzio. Quello di chi è fuori: dagli ospedali, dal lavoro, dalla normalità. E il silenzio di chi è dentro: negli ospedali, nei pochi luoghi nei quali il lavoro prosegue, con un senso di rarefatta normalità. Si sente solo il rumore del respiro. Di chi prega. Da solo. Spesso lontano da chi ama, da chi vorrebbe sostenere e accudire senza però poterlo fare. In case che di giorno in giorno si fanno più piccole. Il silenzio di chi lavora senza sosta. Di chi, con quel respiro, spesso artificiale, s’inerpica sugli scalini dell’esistenza, in un confitto doloroso e inatteso. Il silenzio di chi resta a lottare in residenze sanitarie per anziani che in alcuni casi si sono trasformate in cunicoli con vista sul dolore. Un viaggio troppo breve. Diverso da quello che s’era immaginato.
E ci sono i “nostri” duecento morti. Fa impressione persino scriverlo, immaginando tutte quelle croci piantate nei nostri pensieri, in questa terra che ha voglia di rialzarsi e di ripartire, ma che dovrà saper ricostruire il tessuto della speranza prima di quello dell’economia. Buona Pasqua. Buona resurrezione.