Il valore del gesto di Arno Kompatscher
Il governatore altoatesino è stato il primo "Landeshauptmann" ad andare ufficialmente ad Auschwitz. I gesti contano. Soprattutto in questa terra. In un luogo nel quale le azioni sono sovente bandierine adagiate, piantate o dolorosamente conficcate nella storia
I gesti contano. Soprattutto in questa terra. In un luogo nel quale le azioni sono sovente bandierine adagiate, piantate o dolorosamente conficcate nella storia. Per questo ha un significato enorme vedere, fra gli studenti altoatesini arrivati ad Auschwitz sul treno della memoria, Arno. Sì, Arno: non tanto e non solo il presidente della Provincia Kompatscher, ma prima di tutto l’uomo Kompatscher. Il ragazzo che una volta cresciuto è diventato Landeshauptmann, il giovane governatore che anche per ragioni anagrafiche può chiedere scusa - come ha fatto in più di un’occasione - e ripetere, come ha detto anche in queste ore, un forte «mai più». Lui è figlio del dopo: è nato molto dopo le pagine nere della guerra, 14 anni dopo castel Firmiano, 10 anni dopo la notte dei fuochi, gli attentati, la guerra civile. Aveva un anno nei giorni in cui si approvata il secondo Statuto d’autonomia e in cui una Regione che in questo tempo liquido andrebbe peraltro riscoperta e rilanciata lasciava di fatto lo scettro alla Provincia. Non c’era, Kompatscher, mentre la politica locale illuminata - tanto sul fronte italiano quanto su quello tedesco - costruiva un dialogo con Roma che avrebbe portato questa terra nel presente che oggi tutti conosciamo. Un presente che per diventare futuro e per riempirsi di una convivenza che non sia solo di facciata o di comodo, ha ancora bisogno di gesti, di passi, di nuove forme di dialogo.
La strada della convivenza è una giungla ancora piena di ostacoli: ogni volta che si fa un passo nella giusta direzione, si rischia di farne un paio indietro. Scegliere d’essere il primo presidente altoatesino che arriva ad Auschwitz, in tempi nei quali c’è ancora chi ama gettare sale sulle piaghe, significa armarsi di ago e filo per suturare ferite che per troppo tempo sono state considerate incurabili. Significa, anche simbolicamente, ricordare e ammettere - come il presidente ha ribadito anche venerdì - «che anche da noi ci furono complici e carnefici». Dalle finestre del giornale intravedo il frammento del binario sul quale passavano i carri merci che partivano per i campi di concentramento. I primi ad essere deportati, nel 1943, furono gli ebrei altoatesini italiani. Ripercorrere idealmente il binario della morte che dal lager di transito di Bolzano portava tutte quelle persone a morire in Polonia, in Germania e in Austria, significa non solo vivere e condividere un’esperienza forte, accanto a giovani che hanno compreso che non si può vivere senza memoria, senza sapere, senza vedere. Vuol dire anche dare nuovo respiro a parole come democrazia, libertà, uguaglianza, parole che faticano a consolidarsi in un fragile terreno ancora troppo simile alla cenere.
Foto Enrico Amadori/Deina