Il sogno di Antonio Megalizzi continua
Fra le tante, venerdì mi è venuta in mente una frase di Antonio Megalizzi ritrovata fra le pagine del bel libro che gli ha dedicato Paolo Borrometi («Il sogno di Antonio»): «Quello che noi chiamiamo destino, in realtà è il nostro modo di rendere magiche le cose belle e meno tragiche le cose brutte. È il nostro escamotage preferito per dare un senso forzato a cose che un senso non lo hanno». C’è un po’ tutto quello che è successo venerdì e negli anni che hanno portato a questo momento solenne, in questa frase: il senso meraviglioso, quasi magico appunto, di una laurea data a uno studente che però non ha potuto ritirarla. Per una morte che non ha e non può avere un senso. Perché Antonio si è spento il 14 dicembre a Strasburgo. Tre giorni dopo l’attentato dell’11 dicembre del 2018, nel quale era stato colpito dai proiettili sparati da un giovane estremista che forse nemmeno sapeva che stava uccidendo un altrettanto giovane simbolo. L’emblema, quasi invisibile ma potente, di una generazione. Di un’idea di Europa. Di un desiderio di raccontarla, quell’Europa pacifica e capace di guardare lontano. Di un’arrampicata simile a quella che tanti giovani Sisifo affrontano ogni giorno coltivando il loro sogno e rischiando di ritrovarsi continuamente al punto di partenza: perché certe fatiche non si vedono, si provano; perché certi sogni non si pesano, si coltivano. E soprattutto perché troppi magici riconoscimenti Antonio li ha purtroppo ricevuti da morto. E qui c’è di nuovo tutto il nostro magico modo di rendere belle le cose brutte: un titolo accademico consegnato dall’Università di Trento davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Parlamento europeo David Sassoli, è infatti qualcosa di più di una carezza alla memoria. È la cristallizzazione di una giovane esistenza già ricca di primati, di scommesse, di capriole in salita. È la chiusura di un cerchio che resta aperto per sempre. La chiusura del cerchio: perché con la tessera di giornalista in tasca e con la laurea Antonio - che certo non avrebbe voluto essere un eroe o un martire, come ha scritto lo stesso Borrometi - avrebbe potuto finalmente puntare a uno stipendio decente, a lavori meno precari. E l’infinita apertura del cerchio: perché la nascita della Fondazione, la testimonianza dei presidenti Mattarella e Sassoli, le parole e i tanti ricordi che riempiono di energia una vita che è durata solo 29 anni, ci dicono che l’Europa di Antonio è un traguardo possibile. Tutto da costruire, direbbe il capo dello Stato pensando proprio allo sguardo pieno di speranza di Megalizzi. Ma i confini si abbattono solo con sogni e speranza. Con esempi, soprattutto. Con giovani che hanno già la residenza intellettuale in un continente senza barriere. E in tal senso la meglio gioventù ha bisogno di radici da coltivare. Peccato solo che la cerimonia, all’Università di Trento, sia stata per pochi. Doveva essere una festa collettiva, con un enorme schermo in piazza. Perché ci sono altri europei da vincere. Gli europei della straordinaria normalità dei nostri giovani. Nessun escamotage. Vita reale.