Il Paese di Sergio e quello di Amadeus sono in fondo lo stesso
L’Italia di Sanremo e l’Italia del Quirinale non sono diverse. La prima ha la forza e il grande merito di sollevare temi profondi con apparente leggerezza. La seconda sembra leggera anche quando è profonda. La prima fa cantare, ma anche - se non soprattutto - pensare. Ci riporta a un passato che ci è caro. Ma ci proietta contestualmente nel futuro, in quella che Mattarella chiama l’Italia moderna. Intesa come punto d’arrivo più che come dato di fatto. Sanremo parla alla nostra voglia di spensieratezza, al nostro desiderio di staccare (non solo da due anni di pandemia). In fondo è l’altra faccia di noi: lo specchio pieno di contraddizioni e di contaminazioni nel quale abbiamo bisogno di ritrovarci, di riconoscerci. E l’Italia del Quirinale è uno specchio diverso, ma non poi così tanto. Il parlamento che abbiamo eletto infatti ci somiglia. Anche quando lo detestiamo. Anche quando non trova una soluzione. Anche quando fa un giro lungo per poi tornare al via. Ci somiglia, il parlamento: perché lo abbiamo eletto (non tutti, visto che tanti ormai disertano le urne, sollevando un problema che la politica fatica peraltro a cogliere), ma anche perché rappresenta, insieme, la nostra paura di cambiare e il nostro desiderio di apparire comunque aperti e pronti a qualsiasi cambiamento. Le urne, negli anni, ci hanno detto con chiarezza che un pezzo di noi cambia pur di cambiare e un altro pezzo preferisce sempre l’usato sicuro. La fotografia di tutto questo è soprattutto nel duetto Morandi-Jovanotti. Tolto il velo di straordinaria ed energica allegria, sono un po’ come Mattarella e Draghi: tengono insieme tutto e tutti. Danno fiducia. E anche quando sperimentano qualcosa di diverso, anche quando ci fanno sorridere, ci danno l’idea di non farci mai saltare nel buio. C’è un altro volto che ci descrive ancora meglio. Un miscuglio di nostalgia, di poesia, di ironia, di intelligenza che traspare da una risata solo all’apparenza lieve: è quello di Monica Vitti, la regina di un cinema che sapeva guardare l’Italia - e raccontarla a noi e al mondo - come pochi altri. Sempre in bilico fra sarcasmo e genialità.
Certe parole - al cinema, nei palazzi della politica, sul palco di Sanremo - contengono qualcosa che ci attrae e che ci respinge. Ci riconosciamo in modo spietato in alcune immagini, in alcuni gesti, o fingiamo di essere molto diversi da ciò che vediamo in quello specchio che esalta i nostri difetti. Ma nella telefonata di Mattarella ad Amadeus (una conversazione fra due italiani che ci hanno regalato in modo diverso un po’ di speranza), nonché nella scelta (rivoluzionaria) del Papa di andare da Fazio e, infine, nella nostra decisione - quasi collettiva - di salire idealmente sul palco dell’Ariston, in modo palese o di nascosto (altra modalità tipica italiana), c’è un po’ tutto di noi: la nostra voglia di uscire dal tunnel del covid, il nostro desiderio di ripartire, per ritrovare quella dignità e quell’ottimismo che anche la politica deve saper ricostruire. Per noi, ma anche per sé stessa. Per non darci l’idea che valga di più un voto a Sanremo che un voto alle elezioni.