Il 25 aprile visto dal Lager di Bolzano



Fine anni Ottanta. Fine aprile. A Bolzano. Pioveva. Anche sui miei appunti. Anche sull’inchiostro che uscendo dalla penna che mi aveva regalato mia moglie per il mio primo incarico al giornale somigliava a piccole pozzanghere che cambiavano la forma delle parole e del mio blocco. Acqua a volontà. Simile alle lacrime che non ricordiamo o che non abbiamo nemmeno saputo immaginare. Le lacrime di gioia del 25 aprile. Le lacrime di dolore per chi è morto per dare a tutti noi la libertà.

In cento storie, volevo raccontare - attraverso gli occhi di chi aveva visto e vissuto quella città - una Bolzano che stava morendo, insieme ai ricordi, insieme alle tracce di una memoria, rovesciando le parole di Citati, prima tragica e funesta, poi dolorosa e infine felice. L’obiettivo era quello di ritrovare lo stupore e la meraviglia che c’è solo nelle vite normali, in racconti che all’apparenza non avevano nulla di eroico. Eppure, quasi in ogni conversazione,  accanto alla gioia del ricordo di un 25 aprile personale, intimo, e poi collettivo, emergeva, come un vecchio sottomarino arrugginito ma indistruttibile, l'ombra del Lager di Bolzano. La pagina buia. La storia strappata. Il Lager di transito, s’affrettavano tutti ad aggiungere. Come se passare di lì per un viaggio che non prevedeva ritorno fosse meno tragico del morire in questa regione, in questa nostra terra. Lo ammetto: in quel lontano aprile del 1989 – con l’altro muro, quello di Berlino, all’apparenza ancora saldo (sarebbe crollato dopo qualche mese) - non sapevo nulla. Del campo. Di questa ferita rammendata non so quando e non so come. La storia studiata sui libri non ha spazio per i dettagli. A scuola ci avevano portato in gita in un sacco di posti: sempre in Italia, perché allora l’estero era davvero lontano. Ma mai nessuno – né alle elementari né alle medie o al liceo – s’era sognato di portarci in via Resia, a Bolzano. La storia, mi vien da dire ora, non si ferma quasi mai in quelli che a uno sguardo superficiale possono sembrare angoli di poca importanza rispetto alla linea retta di un’enorme vicenda che è in realtà grande nel dolore più che nella gioia.

C’era una paradosso, nelle parole che iniziavo ad affastellare sotto la pioggia: i ricordi belli, anche fra le righe dei quaderni di vite piene di sacrifici, schiacciavano tutto. In fondo, ognuno di noi tende a filtrare. La bellezza da una parte (e la liberazione ha una bellezza che toglie il fiato): in una luce che splende come le belle cornici che teniamo in soggiorno. Il dolore dall’altra: in stanze buie, in soffitte coperte da cose inutili che hanno però il grande pregio di annullare la disperazione, la morte.

A un certo punto del racconto, però, quasi tutti i 100 testimoni che ho incontrato, citavano la zona del Lager. Sì, i protagonisti del secolo che lo storico Eric Hobsbawn definì breve, smontavano quest’immagine quasi poetica: due guerre avevano sì velocizzato o quasi congelato e annullato parecchi anni del Novecento, ma ne avevano anche dilatato il dolore, i giorni di colpo resi infiniti dall’attesa di qualcosa che non passava, che non accadeva, che non cambiava. E in quel qualcosa, il Lager di Bolzano era insieme il detto e il non detto, il visto e il non visto. Ma tutti - anche a Trento?, mi sono chiesto a lungo - sapevano. Quelli che erano arrivati qui prima e quelli che avevano iniziato la loro parabola bolzanina dopo. E parlando della Liberazione, del ritorno alla vita, di una ricostruzione che era passata anche dalle loro mani, dai loro occhi e dal loro sudore, guardavano il callo invisibile che s’era formato sui loro ricordi. Perché parlare di tante piccole storie che messe insieme fanno una grande storia, significa fare inevitabilmente i conti con il proprio vissuto, con ciò che si è visto o che si è ascoltato. Con ciò che nessuno vorrebbe vedere o sentire. E i racconti dell’Italia che rinasceva si intersecavano sempre con un dolore individuale o collettivo. Con una memoria di cui anche oggi si celebra il valore. Di più: si celebra la necessità della memoria. Bolzano ha fatto un grande sforzo, negli anni, per riportare alla luce l’unico lembo di quella pagina accartocciata: il muro del Lager. Chiunque sia passato da un campo di concentramento, sa bene cosa significhi vedere e toccare: perché la memoria ha bisogno di appigli, per arrampicarsi in un presente che tenderebbe ad annullare ogni ieri. La libertà è una parola vuota se non la si declina anche al passato, sgretolando il muro dell’indifferenza, della dimenticanza. E mi spaventa l'idea che molte delle persone che stanno morendo in questi giorni siano le ultime ad averlo vissuto, quel 25 aprile di 75 anni fa. Con loro, rischia di andarsene un po' del senso del nostro oggi.













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