La storia

I 100 anni di Aldo Giacon, sopravvissuto al lager: «Devo la vita a una coperta» 

Deportato dai tedeschi in Polonia, sopravvissuto al campo di concentramento. «Ho detto no ai fascisti  della RSI. Non volevo tornare a casa dal lager per sparare ad altri italiani»


Luca Fregona


Bolzano. Ogni mattina quindici minuti di cyclette e altri quindici di tapis roulant. «In casa non uso il bastone, ma se esco sì. Sono più tranquillo. Prima avevo il contapassi, adesso cammino meno e li tengo a mente». Qualche settimana fa gli hanno rinnovato la patente. Ogni tanto sale coi figli alla Mendola, dove con la moglie Dina nel 1967 ha costruito una casetta (che lui chiama “baita”) ai Villini di Ruffrè. Ovviamente guida lui. Gli piace tagliare le curve e - qua e là - pigiare l’acceleratore. Ma senza esagerare. «Regola d’oro della mia vita: mai farsi prendere la mano, nel bene e nel male. Affrontare le cose un passo alla volta». Per il gruppo missionario della parrocchia Tre Santi - di cui è una colonna da sempre - tiene ancora la contabilità. «Coi numeri vado bene, ma altre cose non ho più l’energia fisica per farle».

Il 14 settembre 2024 Aldo Giacon ha compiuto cento anni. Per intenderci: quando è nato, Mussolini era al potere da due anni. Giacomo Matteotti era stato assassinato tre mesi prima. Aldo Giacon è seduto in poltrona nel tinello del suo appartamento in via Capri 5, in una palazzina costruita nel 1954 in cooperativa. Dina, l’amore della sua vita, è morta, anzi, come dice lui, “è volata in cielo” nel 2016, dopo 74 anni di vita insieme (“68 di matrimonio e 6 di fidanzamento”). Accanto ha i figli Claudio e Bruno. Ma Aldo vive da solo. Si cucina, rassetta e fa la lavatrice.

Pullover blu, pantaloni eleganti sempre blu, eleganti occhiali tondi tartaruga, sulle gambe tiene la coperta militare di lana grezza grigia che gli ha salvato la vita in Polonia. La conserva con cura in un sacchetto con la scritta ‘43-‘45. Fa un sorriso, Giacon. Riavvolge il nastro del tempo e racconta tutta la storia.

L’infanzia.

«Sono nato il 14 settembre 1924 a Grumolo delle Abbadesse - attacca -, un piccolo paese in provincia di Vicenza. La mia era una famiglia modesta, povera potrei dire. Vivevamo in dieci in una cascina senza luce e senza acqua corrente: mamma, papà, le mie tre sorelle, i nonni e i fratelli di mio padre. Papà era operaio, mia madre faceva la mondina». Nel 1931 il padre trova lavoro per una ditta che fa la manutenzione dei binari ferroviari. «Ci siamo trasferiti a Chions, in Friuli. La nostra casa era il casello ferroviario del paese. A Chions non è stato facile. Il dialetto era diverso, gli altri bambini non capivano me e io non capivo loro. Le cose sono migliorate quando ho iniziato a spiccicare due parole in furlan».

Presa la licenza di quinta elementare, il discorso in famiglia è chiaro. «Dovevo andare a lavorare. Le bocche da sfamare erano tante e i soldi pochi, nonostante mio padre fosse caposquadra e mia madre si spaccasse la schiena nelle risaie con le gambe nell’acqua fino al ginocchio».

La madre lo spedisce dalla sorella Rosa a Bolzano, che insieme al marito Antonio, è la casellante della linea ferroviaria per Merano (dove oggi c’è ponte Resia).

«Era il 1937, avevo 13 anni. Bolzano era una specie di Mecca delle opportunità. Stava nascendo la zona industriale. L’italiano ancora non lo parlavo bene. La casa-casello era in mezzo al nulla accanto ai binari. Intorno solo campagna. Non avevo amici, ero lontano dalla mia famiglia. Mi sono dovuto dare da fare».

Si iscrive alla Scuola di avviamento professionale di piazza Domenicani.  «In classe eravamo in trentadue, si parlava solo in italiano, banditi i dialetti. Lì ho imparato bene la lingua di Dante che ci insegnavano insieme a materie come falegnameria, forgia e officina».  Da studente va apprendista meccanico alle Acciaierie. «La paga era una miseria: 1,25 lire l’ora. Il clima in reparto era severo».

Il primo bacio

Il 10 giugno del 1940 Aldo sente alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini. «Gli altoparlanti gracchiavano le parole del Duce in tutta la città. Nelle piazze, nelle strade, nei negozi, in fabbrica, negli uffici. In quel momento non ho provato nulla di particolare. Solo i reduci del ‘15-‘18 sapevano veramente cosa fosse la guerra. Noi ragazzi cresciuti all’ombra del fascio avevamo una visione ingenua. Come se quella parola - guerra - fosse una cosa irreale, fumosa. Lontana. Più una suggestione che un pericolo incombente».

Nel 1942 la qualifica di operaio specializzato e l’assunzione definitiva. «Mi hanno messo alla mia prima macchina: una grossa limatrice meccanica per la sgrossatura di bielle per motori navali. Lo stipendio salì a 3,55 lire l’ora. Non male per l’epoca. I capi erano duri. L’orario di lavoro sacro. Turni di dieci ore, dalle 4 del mattino alle 14; e dalle 14 alle 24. Non erano concesse pause, vietatissimo fumare. Per i bisogni corporali dovevamo chiedere la chiave del cesso al caposquadra e non troppo spesso. I trasgressori venivano multati, i loro nomi esposti in bacheca. D’altra parte, eravamo in guerra. E la guerra ha bisogno dell’acciaio come il fuoco della legna. Se lo mangia come burro. Dovevamo produrre, produrre e ancora produrre. Acciaio per le navi, i carri armati, i cannoni, i blindati. La mia vita era tutta in quella piccola comunità che è la fabbrica».

Sempre nel ‘42 , in primavera, conosce Dina Gervasoni. Capelli castani, occhi intensi, timida e riservata, lei lavora negli uffici amministrativi dello stabilimento. «A fine turno l’accompagnavo a casa in bicicletta. Abitava alle Semirurali, rione Dux. Una sera di novembre siamo davanti al cancello di casa sua, in via Alessandria 6, quando suona la sirena dell’allarme antiaereo. Dina mi dice di scappare. In realtà, non voleva che il papà la vedesse con un ragazzo. Allora le dico: “Dina, vado via solo se mi dai un bacio”. È stato il primo di tanti...».

Guerra.

A metà agosto del 1943 riceve la cartolina precetto dal distretto militare di Bolzano. Destinazione Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, 11° Reggimento bersaglieri. «Ero preoccupato, ma non troppo. Dopo il 25 luglio e la caduta di Mussolini, ci eravamo convinti che la sorte della guerra fosse segnata e che saremmo tornati a casa presto. Invece...». Arriva l’8 settembre, l’armistizio. «Non dimenticherò mai quella sera. All’imbrunire, di colpo, a Gradisca si accesero tutte le luci nelle case. La gente aveva tolto i teli oscuranti e si era riversata in strada a ballare e cantare. Credevamo davvero fosse finita». Non è così. Il 12 settembre piomba in paese una colonna di panzer con la svastica. «Il giorno prima i nostri ufficiali e graduati si erano tolti le mostrine ed erano svaniti nel nulla. Di sicuro avevano saputo qualcosa. Noi burbe abbiamo provato a fuggire, ma i tedeschi e i fascisti ci hanno fermato a un posto di blocco, intimandoci di tornare indietro. I tedeschi avevano posizionato quattro nidi di mitragliatrici intorno alla caserma. Eravamo in trappola. Il giorno dopo ci hanno caricati sui carri merci a Villa Opicina. Ci puntavano la canna del fucile nella schiena e urlavano. Verräter Ba-do-gl-io. Traditori, traditori. Foi tutti Ba- do-gl- io. Sento ancora il latrato nelle orecchie. Nel mio vagone eravamo in sessantaquattro pigiati come sardine. In piedi e seduti a turno sopra gli zaini. Dovevamo fare i bisogni lì dentro. Senza cibo e poca acqua. La puzza era nauseante. La tradotta era di circa settecento prigionieri. Quattro giorni e quattro notti così: non lo auguro a nessuno».

La coperta di lana.

Aldo Giacon interrompe il racconto. Afferra la coperta militare. «Questa - dice -. Questa- ripete - mi ha salvato la vita. Grazie a Dio l’avevo infilata nello zaino, assieme a un quaderno a quadretti dove ho tenuto un diario della prigionia. Eccolo qua...». Copertina nera, scrittura fitta, date su date, nomi, ma anche interruzioni, pagine lasciate vuote. «Non sempre avevo voglia di annotare anche se capivo che era importante». Prima destinazione Polonia, Stammlager 20, nel nord, vicino alla città di Torun. Il Kz è in aperta campagna. Una fila di baracche. Dentro: castelli di tre piani di tavolacci scheggiati. Né coperte né cuscini. «Dormivamo lì sopra con la divisa addosso. Per fortuna avevo con me la coperta. Faceva già un freddo cane. Scopro che il mio nuovo nome è un numero in tedesco: Kriegsgefangener 49661. E che lo devo ricordare a memoria, perché così mi chiamano e così mi devo presentare: 49661». La disciplina è ferrea. Appello alle 5 del mattino, a colazione una brodaglia che chiamavano tè, a pranzo una zuppa di bietole immangiabili. La sera due chili di pane nero da dividere in sei e un velo di margarina a testa. «Le guardie facevano il loro mestiere, non erano SS. Erano anziani della Wehrmacht con le pance gonfie di birra. Inflessibili, ma non cattivi. Ma si sa: per i tedeschi l’obbedienza è l’undicesimo comandamento».

La scelta.

Il 19 settembre arrivano gli emissari del Duce. «Ci dicono: volete restare a marcire qui o tornare subito a casa? Aderite alla Repubblica sociale e partirete per l’Italia sul primo treno. Su duemila hanno firmato una trentina. I fascisti sono tornati una settimana dopo. Hanno ripetuto la manfrina, ma, questa volta, non ha firmato nemmeno uno. Perché? Perché eravamo stufi della guerra, stanchi di Mussolini. Non volevamo “tornare a casa” per sparare ad altri italiani. Ho ragionato molto in questi anni. Se per un qualche motivo fossi rimasto in Italia, cosa avrei fatto? Sarei salito in montagna con i partigiani, mi sarei imboscato, o avrei obbedito a Salò? La risposta non c’è. Avevamo pochi strumenti, poche informazioni. Quello che so, è che davanti ai reclutatori fascisti abbiamo detto no. Sono onesto: ci eravamo illusi di essere comunque al capitolo finale. Che saremmo tornati liberi in fretta. Ma quando abbiamo capito che non era così, che avremmo rischiato di non rivedere più l’Italia e i nostri affetti, come poi è successo a molti di noi che in Germania e Polonia sono morti, nessuno si è tirato indietro. Non eravamo eroi, ma abbiamo fatto la nostra parte».

La miniera.

Poche settimane dopo - sui soliti carri bestiame - vengono deportati in un altro campo in Alta Slesia per lavorare nelle miniere di carbone di Imielin. «Scavavamo le gallerie con la dinamite per trovare la vena. Io portavo fuori i detriti delle esplosioni». Manodopera a costo zero, gli schiavi di Hitler. Il vitto è scarso, il lavoro massacrante, la sorveglianza violenta e asfissiante. E poi: i pidocchi, la scabbia, il freddo, la dissenteria, il tifo, le malattie, la morte dei più deboli. «L’unica consolazione erano i pacchi di cibo che - tramite la Croce Rossa - arrivavano da casa e dall’Azione cattolica, e le lettere di Dina, che mi spronava a non mollare. Mi raccontava anche dei bombardamenti su Bolzano, ed ero in pena per lei e i miei zii». Aldo si commuove. «Dina mi spedì una sua foto bellissima. Un primo piano intenso. La testa piegata sul dorso della mano come un angioletto. Appena me la videro, i tedeschi la fecero a pezzi». La fame, le privazioni, i pozzi neri e malsani della miniera: nell’estate del ‘44 Aldo si ammala gravemente di pleurite. Febbre altissima, i polmoni sfasciati, il corpo che non risponde. I kapò polacchi, che lo hanno in simpatia, segnalano la situazione al comandante del campo: il Kriegsgefangener 49661 è allo stremo- dicono -, se resta nel pozzo, muore. Il comandante, «una brava persona che non calcava la mano», lo spedisce in un ospedale militare vicino a Katowice. «Ci sono rimasto tre mesi. Me la sono cavata non so come. In settembre ci hanno trasferiti in un’altra città polacca, lontana dal fronte, per lavorare in uno zuccherificio. Mi riempivo le tasche e la bocca di zucchero, ho ripreso un po’ di forze».

Nell’autunno del ‘44 da internati militari vengono “promossi” Gastarbeiter, lavoratori civili. «“Liberi” alla maniera tedesca, di fatto lavoratori coatti, e avendo perso lo status di prigionieri non avevamo nemmeno più diritto ai pacchi della Croce rossa».

Il viaggio.

L’8 febbraio del 1945 i russi premono a Est. «La fabbrica si ferma, i tedeschi scappano. Ci dicono che l’Armata rossa sta arrivando, che siamo liberi di andarcene. Puntiamo a sud. Dormiamo nei fienili e nelle case abbandonate, mangiamo quello che troviamo. Dopo tredici giorni e 130 chilometri a piedi, arriviamo a Zittau, in Germania, al confine con la Cecoslovacchia dove ci mettono a scavare trincee». Il 5 maggio, la Germania è un paese sconfitto e allo sbando. «Erano spariti tutti. Avevano paura della vendetta dei rossi. Nessuno dava più ordini o ci diceva cosa fare e dove andare. A ovest c’erano gli avamposti americani a est i russi. Abbiamo puntato ancora a sud. Verso il sole. Verso l’Italia». A piedi. Poi su un carretto con tre cavalli raccattati per strada nelle fattorie abbandonate. «Entravamo nelle cascine bombardate e ci prendevamo da mangiare. C’era poco o niente. È stata durissima. Abbiamo attraversato la Cecoslovacchia. Ai primi di giugno siamo arrivati a Salisburgo dove abbiamo aspettato che riaprissero la linea ferroviaria del Brennero».

A casa.

22 giugno 1945: Aldo Giacon sale sull’ennesimo carro marci. A mattino inoltrato scende alla stazione di Bolzano. «Esco sul piazzale e vedo mio zio Antonio. Ero ridotto uno straccio. Magrissimo, la barba lunga, i vestiti logori. Lo chiamo, alzo la mano. “Zio, zio”. Lui fatica a riconoscermi. Poi mi mette a fuoco. Le lacrime... Le lacrime che ho versato io e le lacrime che ha versato lui. Era lì insieme a centinaia di madri, padri, sorelle, fratelli, bambini che cercavano i loro cari di ritorno dai lager. Non faccio tempo a riprendermi, che arriva Dina. Le dattilografe degli stabilimenti della Zona erano state comandate a registrare i reduci che sbarcavano dalle tradotte. Lei chiedeva sempre del suo fidanzato Aldo Giacon. Uno dei miei compagni le aveva detto che c’ero anch’io sul treno. È stata una vera grazia di Dio essere tornato vivo e ritrovare le persone care». Aldo resta solo una settimana a Bolzano. «Volevo rivedere i miei genitori e le mie sorelle. Avevo bisogno di loro, della mia famiglia. Appena possibile, sono partito per Udine. Sceso dal treno ho camminato per diciotto chilometri a piedi fino a Chions. Ho baciato i miei e poi... poi mi hanno ricoverato di nuovo in sanatorio: la pleurite non mi dava tregua». Il rientro a casa è doloroso. «Non ero più io. Il lager mi aveva segnato. Ero diventato taciturno, apatico. I giorni passavano e mi lasciavo vivere. Non dico che la vita non mi interessasse più, questo no, ma avevo una tristezza, una cupezza che mi divoravano dentro. A darmi la scossa è stata - ancora una volta - Dina». Dina, che aveva aspettato paziente qualche mese, gli invia una lettera: “O vieni subito a Bolzano o io ne trovo un altro”.

«Sono salito sul primo treno. Era il novembre 1945. Mi hanno ripreso alle Acciaierie, all’ufficio tecnico. Ci siamo sposati nel ‘48 alla chiesetta delle semirurali, siamo andati a vivere in una casetta in via Alessandria. Non c’era il riscaldamento, il bagno era un bugigattolo con il water ma senza lavandino. Per lavarci scaldavamo l’acqua e la versavamo in una tinozza. Per noi era il paradiso».

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