il lutto

Dino Panato e il gusto della verità

Addio al fotografo-narratore del Trentino: il ricordo di Paolo Mantovan


Paolo Mantovan


Raccontare Dino Panato non è semplice. La figura, così prorompente, sfugge a qualsiasi descrizione. Era un uomo sincero e libero che con le sue fotografie cercava di riconsegnare il senso profondo che aveva della vita. Ricco di un entusiasmo così straripante che per controllarlo ha cercato di costruirsi addosso la maschera del burbero, del disincantato che è pronto ad aspettarsi il peggio. E invece no, Dino aveva una volontà straordinaria e una tenacia come pochi. Ci credeva, sempre. E aveva alcuni punti fermi che non ha mai tradito. 

Innanzitutto il desiderio di verità. Dino cercava sempre la foto “vera”, quella che racconta la realtà: attendeva il momento giusto, cercava il particolare, aspettava l’incontro reale fra le persone, gli abbracci veri. Magari gli usciva una foto non perfetta, con un angolo d’ombra, ma era pura “verità”. Era lo scatto che immortalava un sorriso o una smorfia reale. Era lontanissimo da chi invece costruiva le foto, da chi chiedeva agli interlocutori di avvicinarsi fra loro o di fare un salto: non amava la foto con sceneggiatura. Lui attendeva la foto di cronaca. Quella che ti spunta fuori all’improvviso. Perché è una foto vera. Aveva colto questo stile da Giorgio Rossi (altro grande fotografo) e lo aveva sviluppato alla massima potenza. Anche per questo (per avere foto “vere”) aveva inseguito (e raggiunto) il mondo, anzi, l’olimpo dello sport.

Poi il bisogno di giustizia. Che si collega al desiderio di verità, ma che per lui era una urgenza. Se aveva il sospetto che la foto potesse “consacrare” qualcosa di scorretto, preferiva non scattarla. Se si trattava di una fotografia che poteva togliere dignità a qualcuno, lui abbassava la macchina e non scattava. Senza indugio. E quando si ritrovava a degli incontri, convegni o conferenze stampa, era sempre partecipe, non restava mai lì immobile a cercare soltanto l’inquadratura: Dino ascoltava, si sintonizzava, entrava diretto nelle questioni che si dibattevano e spesso interveniva. Andando dritto al punto che lo preoccupava, specialmente se avvertiva il pericolo di qualche discriminazione.

Un senso di giustizia che a volte lo rendeva pure irriverente, perché non c’era cerimonia o autorità che lo potesse rendere ossequioso o semplicemente silenzioso. Uno spirito ribelle, sempre. Con la prontezza del sorriso o della risata, la voglia di provocare e poi ritrovare la sintonia con tutti: perché c’era in lui la “fede” nell’umanità. 

Quindi la necessità di essere testimone senza cadere nella tentazione del protagonismo. Che pure si collega ai primi due punti (verità e giustizia) perché richiede al fotografo, come al giornalista, di essere sempre presente ma mai di concentrarsi troppo su se stesso. E per lui non era affatto facile perché aveva una personalità impetuosa; ma quel profondo rispetto per l’altro, per chi gli stava di fronte, lo aiutava a trovare il giusto posto di testimone. E così se ne stava nelle retrovie, ma come un gigante irrequieto. 

E poi, certamente, la cosa più rilevante per chi gli stava attorno, per chi lo conosceva: la straordinaria lezione di una passione inesauribile, che non contagiava soltanto altri fotografi o giornalisti, ma chiunque altro. Perché Dino trasmetteva questa netta sensazione: che nulla è mai un “mestiere”, tutto ciò che facciamo è vita. E se non è vita non è nulla. E della vita ci si innamora, non la si vive a metà. Dino era un vulcano di vita.

Ciao Dino.













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