Ciao Omar Monestier, compagno di viaggio unico e speciale
Non me la sentivo di parlare di Omar Monestier, un collega, un amico, un compagno di viaggio, una specie di fratello col quale ho condiviso la strada fin dall'inizio. Oggi ho però ricevuto una lettera del professor Antonio Merlino dedicata a Omar Monestier ("Caro direttore, ho appena saputo della triste notizia della scomparsa di Omar Monestier, ci eravamo sentiti la settimana scorsa, ne conservo il ricordo di un vero Gentiluomo, il più significativo incontro che io abbia fatto a Trieste.
Un abbraccio"). E ho risposto al professore sulle pagine del giornale. Così: Grazie per l’abbraccio, caro professore. Oggi non trovo proprio le parole. Forse, per paradosso, perché sono troppe. Una sopra l'altra. Come un mazzo di carte che la disperazione sparpaglia senza un senso fra ricordi vicini e lontani. E forse perché temo - come invitava a non fare mai quel grande direttore che è stato Eugenio Scalfari - di finire col parlare di me anziché di Omar. Ed è inevitabile: perché siamo cresciuti insieme, io e Monestier. Era l'inizio del 1988. Io, giovanissimo, al Gazzettino di Venezia (nella sede di Belluno), mi ritrovavo a passare i suoi pezzi - come si dice in gergo - prima di metterli in pagina. Era un prezioso corrispondente locale: scriveva di Mel, di Lentiai, di Trichiana e dei comuni vicini. I luoghi della sua infanzia. Le piazze che conosceva meglio. Era bravo, veloce, diretto, sempre a caccia della notizia giusta e sempre rispettoso, gentile, elegante. Un signore anche se aveva solo 23 anni, come me del resto. Giravamo sempre in cravatta, io persino col papillon (ora rido e mi sento ridicolo mentre lo scrivo, ma allora era un gioco divertente): non col malcelato desiderio di sembrare un po' più grandi (anche se un po', sotto sotto, era anche così), ma con un profondo rispetto per il nostro mestiere, per chi incontravamo ogni giorno, per le storie che raccontavamo. In quei mesi, al Gazzettino, c'era la possibilità di avere un contratto di sostituzione, come noi chiamiamo e chiamavamo quei contratti che ti permettono di mettere un piede al giornale per sostituire un collega che è assente per un periodo, e poi magari per mettercene due, di piedi, nel giornale. E io segnalai subito il suo nome a Giorgio Lago, per me non solo un direttore, ma anche un padre e un maestro. Lago capì subito che Omar era un giornalista di razza e gli offrì la prima, importante chance sella sua carriera. Poi non fu però il Gazzettino ad assumerlo con un contratto definitivo, ma la Gazzetta delle Dolomiti, lanciata proprio in quel periodo da Edoardo Longarini. Le nostre strade quel giorno si divisero. Solo all'apparenza, però. Non solo perché trovavamo sempre un modo per sentirci, per confrontarci, per vederci a "metà strada", in luoghi indefiniti, anche per far sentire l'uno all'altro una vicinanza vera, profonda. Una stima conquistata di giorno in giorno. Ogni scusa era buona per seguirci, leggerci, ascoltarci, ovviamente anche per stuzzicarci. Anche da lontano. Anche in silenzio. Anche se ci occupavano di argomenti che magari all'altro non interessavano. Di lì a poco, quando Pagliaro arrivò a dirigere l'Adige, la Cronaca di Verona e il Mattino di Bolzano, chiedendomi di fatto d'essere il suo braccio destro, gli parlai immediatamente di Omar: un giovane brillante, un grande lavoratore, uno di quei colleghi che accendono la luce in redazione quando arrivano, per primi, e che la spengono quando se ne vanno via, per ultimi. Un ragazzo disposto a mettersi in gioco ogni giorno, con tanta voglia di crescere, di imparare, di scrivere, di raccontare il piccolo e il grande mondo nel quale si calava - spostandosi di città in città - in pochi giorni, come se vi avesse vissuto da sempre. Paolo Pagliaro, che aveva un fiuto straordinario per i giovani talenti e che sapeva valorizzare in modo unico molti dei "suoi" giornalisti (sette di noi, vicini a lui in quella stagione unica e indimenticabile, diventarono poi direttori), volle conoscerlo. E decise subito di assumerlo nel giornale che - sostenuto dall'editore - aveva appena lanciato a Verona: La Cronaca. E lì Omar iniziò a volare con ali ancor più forti e ancor più capaci: caposervizio subito; poi caporedattore al Mattino di Bolzano, quindi - come ha ricordato anche ieri nel suo articolo Paolo Mantovan - caporedattore alla redazione di Trento dell'Alto Adige, dove il direttore di allora, Fabio Barbieri, non solo lo chiamò al suo fianco, ma gli chiese successivamente anche di seguirlo - come vicedirettore - a Padova, dove poi Omar si ritrovò a sostituire proprio Barbieri - per analoga tragica sorte - quando Fabio morì improvvisamente. Poi arrivarono le direzioni di altri giornali: Il Messaggero Veneto, Il Tirreno di Livorno e poi, di nuovo, Il Messaggero Veneto e - poco più tardi, insieme - anche Il Piccolo di Trieste. Il destino sembrava volerci bene, perché ci ritrovammo a lungo a lavorare di nuovo insieme, nel gruppo Espresso: io a dirigere La Nuova Ferrara, il Trentino, l'Alto Adige e anche il Corriere delle Alpi di Belluno (direzione che poi passai proprio a lui, in un riassetto del gruppo Espresso), Omar nelle altre, prestigiose testate che ho citato. Alle riunioni del gruppo, a Roma, ci mettevamo vicini, come quei compagni di banco che si scelgono subito, all'inizio dell'anno scolastico, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Scherzavamo sui nostri inizi, sul nostro lavoro sempre più faticoso e impegnativo, sui nostri sogni di carta e d'inchiostro, sulle nostre famiglie che crescevano (e io oggi ho solo voglia di abbracciare sua moglie e i suoi figli, ricordando con le lacrime agli occhi quando, con mia moglie, andammo a trovarli nel loro primo nido, a Belluno). Anche quando, uscito dal gruppo Espresso (ora Gedi), arrivai all'Adige, continuò a seguirmi con affetto. E io ho fatto lo stesso fino a ieri mattina, quando la notizia della sua morte mi ha travolto, facendomi sentire più solo. Perché ci sono veri amici che non senti tutti i giorni, ma che ci sono sempre. Amici capaci di sorprenderti con un messaggio o una chiamata quando meno te l'aspetti, amici che condividendo anche il tuo lavoro diventano dei fratelli (nel nostro caso quasi gemelli, non solo per ragioni anagrafiche). Lo so: ho parlato troppo di me. Ma Omar è una parte di me. C'è infatti un noi che prosegue. Non solo in questi ricordi che oggi ho cercato di condividere con i lettori che ricorderanno Omar Monestier e con quelli che forse lo scopriranno oggi, ma anche in ciò che scriverò da domani, nelle idee che avrò, nella stanchezza che fa paura a tutti noi e che s'è portata via Omar l'altra notte. Ma Omar resterà: perché ha scritto - non solo con la penna, ma anche come direttore di quella complicata orchestra che è un giornale - pagine che resteranno. Con uno stile unico. Con un approccio sempre diverso e originale. Con una curiosità mai doma. Una grande perdita per tutti noi. Ma anche per i tanti lettori che hanno imparato ad amarlo. E' stato un privilegio camminare con Omar lungo il sentiero di un lavoro non facile. E sento i suoi occhi "appuntiti" e curiosi, sempre in movimento alla ricerca di qualcosa, mentre scrivo queste parole che non sono e non saranno mai un addio.