Ciao Charly Pobitzer, mito del basket e gentiluomo
Sei entrato nel nostro cuore in due modi: da mito e da gentiluomo. Con
un’irruenza delicata. Prima che tu vada, sì, prima che tu faccia
quest’ultimo passo terreno chiamato funerale, devo proprio dirti un paio
di cose caro Charly. In verità, le devo dire a Charly e al signor
Pobitzer. Sì, lo so, siete la stessa persona. Ma è vero fino a un certo
punto, perché tu hai vissuto due vite.
La vita del gioielliere che tutti conoscono. E la vita del campione che
volava più alto di tutti, la nostra stella cardinale, un punto di
riferimento sicuro per noi “piccoli” del Savoia, che dopo gli
allenamenti e le nostre partite venivamo sempre a veder giocare te e i
tuoi compagni, nelle partite “vere”. Eri così grande che a noi ragazzini
sembravi infinito: con le braccia arrivavi a un passo dal cielo. Non
facevi solo canestro. Ci facevi sognare. Rendevi possibile
l’impossibile. Donavi emozioni. Eri un simbolo e un esempio. Eri quello
della serie A. Non contava se ci avessi giocato, chi ti avesse chiamato,
cosa fosse successo e cosa ti avesse impedito di giocare con i campioni
di quella stagione magica e ad esempio con Marzorati - Tu che portavi
proprio il numero del mitico Pierluigi, quell’inimitabile playmaker che
goffamente io, piccoletto, cercavo di imitare -; contava chi eri: il
mito di una Bolzano che soprattutto in quegli anni ormai lontani
sembrava la culla della pallacanestro.
Poi c’era l’altra vita, quella dell’orafo, quella del gioielliere,
quella dell’esperto di orologi. Le due vite - ai miei occhi di doppio
tifoso (perché tifavo per te anche quando ti ho ritrovato in negozio) -
si sono incontrate al telefono tanti anni fa. Ero nella mia città,
lontano da qui, e cercavo un pezzo particolare. Ebbene, la mia passione
per i “giocattoli”, come chiamavamo divertendoci gli orologi, mi aveva
riportato a te. Confesso: per un attimo, quando ti ho rivisto, pensavo
fossi Ranzi. Benché somigliassi al mito Pobitzer, anche se eri meno
timido, non potevi essere il Charly della mia infanzia. Sì, faticavo
proprio a immaginare, vista la bravura, la competenza, la misura e la
grazia con cui guidavi la gioielleria, che non ne fossi anche il
proprietario. Ma poi ho capito: i Ranzi, come del resto noi clienti, si
fidavano ciecamente di te. E sapevano che tu avevi quel qualcosa, quella
luce speciale, come nel basket, che ti faceva eccellere. Che ti faceva
entrare nel cuore delle persone.
In queste ore, da quando te ne sei andato facendoci sentire tutti più
soli, pensavo che tante persone hanno dei negozianti di fiducia. Tu sei
stato qualcosa di più e di diverso: un compagno di viaggio attento e
gentile. Quello che sa tutto del cliente, che sa guidarlo, senza mai
imporsi, ma sempre tenendolo ben saldo per mano. Un esempio: non avresti
mai potuto vendermi una cosa che non mi piaceva; per il semplice fatto
che non avresti mai tradito me e il tuo modo di interpretare non solo un
mestiere, ma l’intera esistenza. Ma sapevi sempre cosa cercavo, cosa
sognavo. Già, i sogni: quante volte mi hai chiamato solo per vedere un
“giocattolo” da sogno. Sapevamo entrambi che non avrei mai potuto
comprarlo, ma guardarlo e, per un istante, portare al polso quella che
Shakespeare chiamava la stoffa di cui sono fatti i sogni, in fondo non
costava nulla. Solo un sorriso, un gesto magnifico, un momento di
complicità, un piccolo segreto fatto, come te, di garbo e d’eleganza.
Perché a volte, fermarsi insieme in un angolo del negozio, su quella
nuvola di passione che sta fra la follia e l’ingenuità, fra l’emozione
che solo i bambini sanno ancora provare e la razionalità che molti
adulti perdono quando entrano in una gioielleria, si trasforma in un
momento di sintonia senza eguali, nella condivisione di un tratto di
strada unico, del tutto invisibile a chi sta magari solo un metro più in
là.
Ti chiamai una ventina d’anni fa e solo tu sai cosa nacque da quella
telefonata quasi casuale. Ora ripenso ai tuoi sorrisi - sì, quei tuoi
sorrisi che mancheranno alla tua famiglia e a tutta la città, insieme
alla tua eleganza, a quei due metri che portavi come se fossero una
sciarpa di seta, con deliziosa e simpatica leggerezza - e ripenso anche
a quella piccola smorfia che voleva dire «lascia perdere, questo non fa
proprio per te». L’onestà prima di tutto.
A proposito di “te”: ora mi accorgo che non ci siamo mai dati del tu. La
gentilezza, quella sensibilità profonda, quell’umanità e quel rispetto
per il cliente - anche se ormai eravamo non solo amici, ma anche
complici - hanno riempito il nostro lei di una confidenza così speciale
da valere ben più di un banale tu. E in fondo basta questo a dire chi
eri, a descrivere la tua presenza discreta eppure costante, a raccontare
delle volte in cui si parlava di figli, di famiglia, di piccole e grandi
cose di questo mondo al quale mancherai davvero un sacco. Anzi:
mancherete. Perché oggi Bolzano saluterà Charly e Karl. Il cestista,
l’orafo, il padre, il fratello, il marito, l’amico. Se ne vanno per modo
di dire, perché i miti restano. E di te si parlerà ancora a lungo, stanne
certo. E non ci sarà solo una gran malinconia, nelle nostre parole. Ci
sarà anche la gioia d’averti incontrato, d’aver fatto un tratto di
sentiero con te.
Sapevi che un giorno ti avrei scritto, se ti
conosco bene. Però sapevi anche che avrei voluto scrivere queste parole
fra tanti anni. Perché avevo ancora mille cose da fare con te. Con la
stoffa di cui sono fatti i sogni, ovviamente.