«Vorrei arrivare fino al 2026: non è ancora finita vincere dà dipendenza»
Alla soglia dei 36 anni. «Mi sembra di averne 25, sono malato di sport, allenarmi non mi pesa»
Trento. Christof Innerhofer ha in bacheca tre medaglie iridate - una per colore - e due olimpiche, a cui si aggiungono sei successi e altri dodici podi in Coppa del Mondo. In dicembre compirà 36 anni, «ma mi sembra di averne ancora 25» spiega il finanziere di Gais, che si definisce «un malato di sport». Il verbo “smettere” è ancora sconosciuto al vocabolario di Inner, che in primavera ha messo nelle gambe 4000 chilometri in bicicletta e vuole riprovare le emozioni vissute ai Mondiali di Garmisch 2011 e alle Olimpiadi di Sochi 2014. Vuole vincere ancora. Nemmeno il brutto infortunio al ginocchio patito nel marzo 2019 è riuscito a fermarne la corsa. Il campione azzurro ha dosato le forze nello scorso inverno e ora è pronto a tornare a pieno regime. Si allena duramente, «perché se fai quello che fanno tutti gli altri, può non bastare», e sogna di arrivare fino alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026.
Nei giorni voi azzurri siete tornati a prendere confidenza con la neve, allo Stelvio. Che sensazioni ha provato?
«È sicuramente diverso rispetto a quello a cui eravamo abituati – spiega Innerhofer - Siamo stati obbligati a rivedere il nostro programma, ma a volte non è male cambiare. Mi immaginavo una situazione più complicata. In giugno siamo riusciti a fare 12 giorni in ghiacciaio. Abbiamo provato gli sci lunghi, cosa che generalmente si fa in primavera, poi un po’ di sciata libera, slalom e gigante. Abbiamo lavorato tanto sulla tecnica, che non è mai abbastanza».
Come vengono gestiti gli allenamenti di squadra?
«Stiamo attenti, cerchiamo di mantenerci a distanza di sicurezza. Io, ad esempio, preferisco iniziare la sessione d’allenamento del pomeriggio prima degli altri. Così, quando arrivano i miei compagni, io ho già finito. In pista è meno complicato, siamo più liberi».
Che atmosfera avete trovato?
«Il ghiacciaio ora è aperto a tutti e c’erano tanti ragazzini degli sci club in pista. È stata una bellissima sorpresa e un segnale incoraggiante. Stiamo tornando alla normalità. Io sono fiducioso, sono un ottimista: l’ottimismo mi ha aiutato a rimanere in alto, a superare tante situazioni difficili».
Nell’ultimo inverno, dopo l’infortunio del marzo 2019, ha gareggiato poco. Una scelta mirata, per non rischiare di perdere posizioni nel ranking.
«Sono contento della decisione che ho preso. A conti fatti, ho disputato soltanto quattro gare in meno rispetto a quelle che avrei potuto fare. Ho mantenuto il mio ranking e in due discipline sono ancora nella top 15. Ho comunque sfruttato l’inverno per provare nuovi materiali e mantenermi ad alto livello. Ho preso parte alle prove delle discese libere ed ero sempre tra i primi dieci. Mi sono servite per ritrovare la fiducia».
Le squadre del Nord Europa hanno sciato anche in primavera. Quest’estate, per voi azzurri, non ci sarà nemmeno la trasferta in Argentina. Sarà una partenza ad handicap?
«Pagheremo sicuramente qualcosa in termini di giornate d’allenamento. Non andremo in Sudamerica e forse ci servirà per capire che non è necessario andare in Argentina per essere competitivi. Dobbiamo cercare di ricavare il massimo dalla situazione che si è venuta a creare, è questa la mentalità che dobbiamo avere».
Da costruire fin d’ora sulle nevi dello Stelvio.
«Bisogna ringraziare il presidente Roda, che ha preso in mano la situazione e ci ha dato questa opportunità. Dobbiamo essere bravi a sfruttarla. Ad agosto, dopo tanti anni, torneremo ad allenarci nel “capannone”, dove lavoreremo sullo slalom. Servirà anche quello».
In assenza della neve, come si è mantenuto in forma?
«Ho usato tanto la bici, prima in casa e poi all’aperto, ho messo nelle gambe 4000 chilometri. Finché ho potuto, sono andato anche con gli sci d’alpinismo. Poi ho fatto palestra, circuiti di forza e resistenza».
L’infortunio patito nel 2019, all’età di 34 anni, avrebbe potuto consigliarle di smettere. Invece, all’alba delle 36 primavere, lei guarda ancora avanti.
«Quando sei ammalato di sport, è così. Ho quasi 36 anni, ma mi sembra di averne ancora 25. Quando penso alla mia età, all’avvicinarsi della fine della carriera agonistica, mi viene un po’ d’ansia, ma posso fare una sola cosa: sfruttare al massimo quel che mi resta. Allenarmi non mi pesa, mangio bene, mi piace essere in forma».
Non ha proprio pensato a una possibile data per l’addio?
«Arriverà il momento e dovrò accettarlo, ma in 35 anni non ho perso un solo secondo a pensare a quando smetterò. Mi piacerebbe arrivare fino alle Olimpiadi del 2026, in Italia. So che alla mia età le cose possono cambiare velocemente, ma finora l’idea di smettere non mi ha mai sfiorato. Forse perché mi fa paura dire “ok, ora basta”».
Lei ha vinto tutto. Medaglie iridate, olimpiche. Cosa vorrebbe mettere ancora in bacheca?
«Vincere crea dipendenza, nel senso buono del termine. Diventi dipendente dalle sensazioni che provi quando vinci una medaglia: quel momento lo hai vissuto, sai quanto è bello e lo vuoi rivivere. So che nella mia carriera avrei potuto vincere di più, ma so anche che, dopo tante stagioni, sono ancora qui e ho altre possibilità. Non è scontato, per un atleta di 35 anni, poter guardare avanti. Non è ancora finita».
I Mondiali di Cortina 2021 potrebbero slittare di un anno. La decisione verrà presa a breve. Lei cosa ne pensa?
«Preferirei che rimanessero dove sono, così avrei un grande appuntamento nel 2021 e un altro nel 2022 (Mondiali e Olimpiadi, ndr), ma la decisione non spetta a me».
L’Italia della velocità è aggrappata alle icone Paris e Innerhofer. Alle vostre spalle sembra mancare il necessario ricambio.
«Vent’anni fa si diceva che la squadra di discesa non avrebbe più potuto raggiungere i livelli della Valanga Azzurra. Poi, però, è rinata velocemente, grazie a Fill, Heel, Staudacher e anche grazie a me. Non era facile conquistare il posto in squadra. Qualche giovane interessante c’è, come Alexander Prast. Ora è con noi in squadra A e sono sicuro che potrà fare grandi passi avanti».
E di Vinatzer cosa pensa?
«Che può diventare un vero campione, un vincente. Ha talento, capacità, tecnica. Tutto quello che serve».
Lei un campione lo è. Cosa serve per diventarlo?
«Le componenti sono tre: tu atleta, il tuo allenatore e la tua famiglia. Se da giovane non hai un buon allenatore, non hai chance di arrivare in alto. È lui che deve trasmetterti la passione. Io sono stato fortunato: il mio allenatore mi portava a sciare il giorno di Natale alle 6 di mattina, prima dell’apertura degli impianti. Se fai quello che fanno tutti, può non bastare. Se fai qualcosa in più, hai maggiori chance. Io sono cresciuto in uno sci club che alle Olimpiadi di Vancouver era rappresentato da quattro propri atleti. Non è un caso. E non è cosa da poco».
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