Ciclismo

Pantani, ricorrenze e rimpianti

Fa impressione pensare che oggi avrebbe compiuto 50 anni, non andava lasciato morire così


di Maurizio Di Giangiacomo


Non mi piacciono gli auguri di buon compleanno ai defunti che trovo sempre più spesso sui social. Mi fa impressione, però, pensare che oggi Marco Pantani avrebbe compiuto 50 anni. Mi fa impressione pensare che un ciclista così forte, l’unico ad avvicinare con il suo mito quello di Fausto Coppi, ne abbia vissuti solo 34. Il Campionissimo di Castellania fu ucciso dalla malaria prima di compierne 41. Il loro destino, comune pur nelle grandi differenze, fa pensare. Mi fa impressione soprattutto l’idea che a morire, e in quelle circostanze, possa essere stato un uomo amato com’era amato il Pirata. È una storia molto italiana, quella di Marco Pantani: dall’altare alla polvere, un po’ come un altro italiano (grande e controverso) del quale nel 2020 ricorre il 20esimo anniversario della morte, Bettino Craxi. Se l’inizio della fine del Cinghialone si consumò al Pio Albergo Trivulzio di Mario Chiesa, quello di Marco Pantani ebbe come splendido teatro la nostra Madonna di Campiglio: 5 giugno 1999, l’ematocrito alto, l’esclusione dal Giro, la caduta in un vortice di cocaina e ipocrisie e la morte, il giorno di San Valentino di cinque anni dopo. La tesi del complotto, con la mafia e la testimonianza di Vallanzasca, non mi ha mai convinto. Credo, però, che Pantani non andava lasciato morire in quella maniera. Credo che Marco avrebbe dovuto parlare e non tacere. Avremmo forse un mito in meno, ma un cinquantenne di Cesenatico in più.

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