VERSO L'ADUNATA

"Scivolava sul pendio ghiacciato con un cannoncino in spalla: così salvai la vita a quell'alpino"

L'appassionante racconto di Giovanni Battista Tomasi, di Mattarello. Era il 1962 quando recuperò un commilitone sotto la Forcella di Lavaredo.

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TRENTO. Si intitola "La Forcella di Lavaredo" l'appassionante racconto dell'alpino Giovanni Battista Tomasi, di Mattarello, che aderendo all'invito del "Trentino" ripercorre un giorno di naja di 56 anni fa che non potrà mai dimenticare. Perché quel giorno salvò la vita di un commilitone sulle nevi ghiacciate e ripide all'ombra delle Tre Cime. Un commilitone che a distanza di oltre mezzo secolo potè riabbracciare.

Ecco il racconto.

"Da anni desideravo incontrarlo ma come spesso accade, quando affiorava il ricordo mi mancava il tempo per farlo, e quando ne avevo mi dimenticavo. Alla fine, però, con determinazione ho iniziato la ricerca, avevo in mano buoni indizi, conoscevo il suo paese di residenza, il suo nome, parzialmente anche il suo cognome e sapevo che la sua prima professione era stata il barbiere. Nel frattempo consultavo elenchi telefonici, sia vecchi che recenti, ma il suo cognome non appariva mai. Un grande aiuto mi venne da amici alpini dove avevo concentrato la mia ricerca, e se la persona da me indicata era quella che loro ricordavano, non poteva essere altro che il barbiere, suo concittadino, che esercitava nel paese negli anni della loro giovinezza.

Sì, poteva essere lui, lo conoscevano, ma da tempo ormai aveva abbandonato l’attività e nemmeno la sua “bottega” esisteva più. Ero sulla buona strada e continuavo le ricerche. Contattai anche i frequentatori del Circolo degli alpini del paese e qui un simpatico signore mi informò che quella persona lui l’aveva vista girare in bicicletta nei pressi della sua vecchia abitazione, proprio quello stesso pomeriggio. Mi dà il nome della via, mi sposto in fretta e dopo quarantatré anni lo rivedo.

Mi devo presentare, perché non mi riconosce più, e gli snocciolo il suo ruolino da militare; 1° scaglione Classe 1939, 74ª Compagnia, Battaglione “Bassano”, San Candido, Valle Pusteria. Stupito, sulle prime sta sulla difensiva e mi chiede come facessi io a conoscere i suoi dati. Allora io gli ricordo quanto gli era capitato su quel ripidissimo pendio ghiacciato sotto la Forcella delle Tre Cime di Lavaredo.

Visibilmente commosso, con gli occhi lucidi, a quel punto mi risponde: “Per fortuna che gh‘èra qualchedùn che m’à fermà, ‘n temp senò me sarìa copà de sicùr zó ‘ntra i cròzzi”. Ed io in rimando, “varda che quel qualchedùn ero propi mi…”.

Siamo nella prima decade di gennaio dell’anno 1962 ed ero con la 74° Compagnia del Battaglione Bassano all’esercitazione del campo invernale. Erano uscite che duravano circa due settimane e che per la loro durezza tutti gli alpini di leva cercavano di evitare. Partiti da San Candido sede del Battaglione (Btg) dopo varie tappe e pernottamenti all’addiaccio nella neve che era già caduta copiosa, avevamo raggiunto il Rifugio Locatelli sul versante ovest di fronte alle Tre Cime di Lavaredo e lì, prima di rientrare in caserma, sostammo alcune notti nella dependance.

Nel ritorno, dopo aver percorso un lungo tratto in discesa, di buon mattino, era ancora buio, iniziammo a salire in fila indiana, lentamente, il ripido pendio ghiacciato sul versante opposto che ci doveva portare a scavalcare la Forcella di Lavaredo per scendere a Misurina entro il calare delle tenebre. Era una giornata limpida, serena, ma freddissima. Il termometro era sceso a –25/30, una temperatura peraltro in linea con la stagione e l’altitudine: la barba, i baffi e il passamontagna erano una maschera di ghiaccio. Cosi com’erano strane quelle lunghe lance giallicce di ghiaccio inclinate a 45° delle urgenze fisiologiche che crescevano, dal basso per incanto, ai lati della pista al nostro passaggio. Nemmeno gli occhi si salvavano, perché il vento che soffiava rabbioso ed insistente dalla valle sottostante ne gelava l’umor vitreo e continuamente dovevano essere protetti e puliti. Io ero uno degli ultimi della fila: arrancavo con fatica a causa soprattutto della poca dimestichezza che avevo con gli sci, ai quali, avevamo applicate le pelli di foca per evitarci di scivolare all’indietro e per facilitarci nella salita.

Ad un tratto però una delle vecchie pelli mi si ruppe ed io, come il manuale ordinava, mi lasciai cadere sulla neve ghiacciata per non scivolare lungo il costone. Sia per la posizione in cui mi trovavo sia per i carichi che portavo in spalla che non mi consentivano di mantenere l’equilibrio al massimo, riuscii a fatica a levarmi gli sci ed a riprendere la marcia ora proseguendo in linea retta al centro dell’ampio zig-zàg per riguadagnare il tempo perduto e per levarmi il prima possibile da quella situazione pericolosa. Oltre allo zaino completo di tutto, oltre all’armamento individuale, come radiofonista (Rt) di Battaglione mi portavo dietro l’apparecchio radio in dotazione, una ricetrasmittente “R694” del peso di circa sedici chilogrammi.

Ad un certo punto della salita notai, assieme ad altri commilitoni, che da sopra, disordinatamente, nella mia direzione, si avvicinava qualcosa, una massa che non decifravamo. Con molta attenzione mi spostai di qualche metro per non essere centrato da quel groviglio che scivolava veloce verso di me e solo a quel punto mi resi subito conto del dramma: uno degli alpini che apriva la fila lassù in alto, a più di cento metri, era scivolato sul ghiaccio ed ora trascinato dalla bocca del cannoncino che aveva in spalla piombava in velocità verso il basso pericolosamente a testa in giù.

Nessuno dei presenti prese l’iniziativa ed io d’istinto, incurante di tutto, mi buttai di peso e con non poca difficoltà riuscii prima ad afferrarlo e poi a trattenerlo. Nel parapiglia il cannoncino con forza mi colpì il torace e mi lasciò un grosso ematoma colorato che si riassorbì solo dopo molti mesi. Gli altri commilitoni si erano intanto fatti intorno. Rimesso in piedi e sistemato alla meglio, ripulito dalla neve che lo ghiacciava, il malcapitato si riprese e rincuorato senza “tante (accorgimenti) rèchie”, riprese a salire, perché per fortuna se l’era cavata senza gravi danni, se non con qualche ammaccatura e un grande spavento. Altrettanto facemmo noi.

Avevamo vent’anni e a quell’età le botte forse si sentono meno e poi sotto naja si doveva fingere di non sentirle. Io continuavo a salire seguendo la mia traiettoria diritta; gli altri, perché così erano gli ordini, arrampicavano con gli sci in fila indiana e si alzavano verso la Forcella compiendo giri più ampi. Arrivammo finalmente in cima poi passando per il Rifugio Auronzo, scendemmo fino al lago di Misurina. E qui arrivati, era notte fonda, dagli ufficiali, ci sentimmo dire che non era stato possibile prepararci qualcosa di caldo, perché le cucine a gasolio autotrainate a causa del freddo polare non erano riuscite nemmeno a fare bollire l’acqua per il solito minestrone.

Ancora quella notte rientrammo a San Candido (Innichen) a bordo di camion che avevano i teli di copertura alzati come se durante l’esercitazione appena conclusa non avessimo sopportato abbastanza freddo e gelo. Nei successivi mesi di naja che trascorsi San Candido incontrai poche volte il “miracolato” , perché la caserma era popolata come un piccolo paese e all’esercitazione invernale io ero stato aggregato alla sua Compagnia come radiofonista per effettuare i vari collegamenti, quindi non ero uno dei loro. E in quelle poche volte mai ho voluto ricordargli l’accaduto, perché mi sembrava naturale che in un simile frangente tutti si sarebbero comportati come avevo fatto io. Lui poi si era congedato prima di me, dato che era di un altro scaglione, e da allora non l’avevo più rivisto.

L’incontrarmi con lui dopo tanti anni e scoprire che l’Alpino barbiere si ricordava ancora “de quel qualchedùn che ‘l l’à fermà n’atimo prima de nar zò ‘ntra i cròzi a coparse”, mi ha riempito il cuore di soddisfazione e di gioia e mi fatto dimenticare le enormi fatiche ed i rischi che abbiamo corso per adempiere un dovere sacrosanto verso la Patria, vissuti anche con la forza dei vent’anni che con tanta nostalgia non torneranno mai più.









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