Quando Dellai attaccava Monti

Da governatore, mesi di polemiche durissime con il governo. «Singole lesioni dello Statuto? No, il disegno è complessivo»


di Paolo Morando


TRENTO. Dice Elisa Filippi, la candidata “renziana” del Pd, che Lorenzo Dellai è un po’ un bugiardo: perché il motto che compare sui suoi manifesti, “L’autonomia conta”, «è sicuramente parte del suo passato, ma al momento mi sembra sinceramente mendace rispetto a quella che è stata la sua scelta di politica nazionale: l’accodarsi alla lista Monti non credo sia una svolta autonomista, ma piuttosto una scelta centralista». Siamo in campagna elettorale, e le parole valgono per quello che valgono. Ma le cronache di questi ultimi mesi, da quando il Professore ha sostituito Berlusconi a palazzo Chigi, in effetti straboccano di apprezzamenti tutt’altro che lusinghieri da parte dell’allora presidente della Provincia nei confronto del premier. O meglio: verso il suo governo. Perché va dato atto a Dellai di non aver mai preso di punta Monti chiamandolo per nome e cognome. Chissà, magari già pensando a reincrociarne più avanti il cammino non più da schieramenti opposti, come in effetti è accaduto. Sulle scelte dell’esecutivo, sul suo atteggiamento verso l’autonomia speciale, le parole dell’ex governatore sono state però inequivoche. E ribadite in una interminabile serie di occasioni. Benché Dellai, a inizio anno, al premier avesse anche scritto una lettera aperta (vedi a destra), confidando in un rapporto di leale collaborazione tra Stato e Provincia. Invano.

Le prime scintille sono del 24 maggio, a quasi quattro mesi di distanza dal primo faccia a faccia con Monti, dopo un incontro a Roma con il ministro per le Regioni Piero Gnudi sulla compartecipazione delle province al risanamento dei conti dello Stato. Incontro interlocutorio, per non dire infruttuoso. E infatti Dellai dirà testuale: «Siamo persone ragionevoli e pazienti, ma non ci piace essere presi in giro». Poi la bufera della “spending review”. Il 9 luglio il primo decreto. E un primo Dellai furibondo: «È una palese violazione del nostro Statuto. È un atteggiamento che conferma un'antica presunzione centralista di chi pensa che sia Roma a dover decidere al meglio per tutti gli altri». E una settimana dopo, a Borghetto, ecco un vertice dei governatori di Regioni e Province speciali, con Dellai ancora durissimo contro il governo, accusato di non rispettare i patti, di utilizzare metodi punitivi e imposizioni inaccettabili. Per non parlare di alcuni ministri, «che non sanno di cosa discutono». Sempre in luglio, il 25, il Senato vota la fiducia. Commento di Dellai: «Il progressivo deterioramento del rapporto tra lo Stato e le Province impone risposte ed iniziative eccezionali, così come eccezionale è la sistematica violazione del nostro Statuto».

Passa l’estate ma il clima non si rasserena, anzi. Tanto che lungo l’asse Roma-Trento/Bolzano si moltiplicano le impugnazioni reciproche davanti alla Corte costituzionale di leggi e decreti. E con l’esplodere dello scandalo della Regione Lazio (ricordate “er Batman”Fiorito?) a ottobre si arriva al capitolo relativo ai costi della politica. Con l’ennesimo, puntuale, decreto di palazzo Chigi. Di fronte al quale Dellai fa buon viso a cattivo gioco, togliendosi però più d’un sassolino dalla scarpa. Così: «Mi chiedo dove'erano quegli apparati che ora gridano allo scandalo mentre l'Italia accumulava 2 mila miliardi di debito pubblico... Vengano pure da Roma, a governare loro il Trentino: poi vedremo davvero se verrà a costare di meno». Pochi giorni ed ecco un nuovo decreto sulla spending review, ancora penalizzante verso le autonomie. E Dellai non si tiene più: «Non siamo più di fronte a semplici atti che ledono singoli aspetti del nostro Statuto, ma abbiamo a che fare con un disegno complessivo che punta ad un ritorno al passato, rispetto ai processi di riforma federalista che si sono affermati negli ultimi anni». E pochi giorni dopo, a proposito dela reintroduzione dei controllo preventivo della Corte dei conti sugli atti della Provincia: «È un atto di sfiducia dietro cui vedo un processo di verticalizzazione del potere contrario a tutte le grandi culture politiche italiane».

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