Filippi: «Il Pd si apra a civici e popolari»

Partito in stallo dopo la batosta di Rovereto. La renziana: «No al congresso subito, o saremo lacerati dai personalismi»


di Chiara Bert


TRENTO. Ha il sapore di un ko tecnico quello subito dal Pd dopo il ballottaggio e la sconfitta a Rovereto. Il partito si è risvegliato più frastornato di prima e oggi vive il paradosso di un segretario roveretano dimissionario che chiede ai vertici provinciali di dimettersi. Ma quei vertici (la segretaria Giulia Robol in primis) sono «dimissionati» da mesi, solo che formalmente sta ancora al suo posto perché l’assemblea non è riuscita a trovare un accordo su una candidatura alternativa (Elisa Filippi o un direttorio). E ora che succederà?

Sui territori - che nelle prossime settimane saranno alle prese con l’elezione delle Comunità di valle - il malcontento è a livello di guardia, i circoli sono in fermento e c’è il serio rischio - se il partito non imboccherà una rotta chiara - che si perdano pezzi per strada. Domani si riunisce il coordinamento provinciale: scontato che si parli dei risultati (magri, pur con qualche felice eccezione) delle comunali e delle prospettive del congresso. Il vicepresidente della Provincia Alessandro Olivi, che nella sua «Leopolda» di un paio di mesi fa sembrava aver lanciato una sua candidatura al vertice del partito, ha ribadito che al Pd serve una leadership. Su chi possa interpretarla però al momento si brancola nel buio. Molti big preferiscono attendere prima di parlare.

Parla invece la renziana Elisa Filippi, un anno fa prima alle primarie del congresso, il cui voto fu però ribaltato dall’accordo Robol-Scalfi che portò Giulia Robol alla segreteria. E la sua analisi, fatta anche da roveretana, non fa sconti: «I risultati queste elezioni impongono una riflessione a tutto il centrosinistra e al Pd in particolare. Perché il Pd vince dove ha intrapreso un percorso di apertura. Le sconfitte di Rovereto e Pergine sono pesanti e a mio avviso non possiamo catalogare le civiche come la destra. Sono un campanello d’allarme perché sono un messaggio degli elettori di fronte alla litigiosità della nostra coalizione e a un Pd che ha smesso di fare il Pd».

Per Filippi il caso di Rovereto è emblematico: «Alle Europee il Pd aveva il 44%, alle comunali il 21%. C’è un elettorato che crede in un progetto riformista ma non l’ha riconosciuto nel centrosinistra». E il Pd di Miorandi, renziano pure lui? «È stato un Pd schiacciato a sinistra nel senso conservatore del termine, non attrattivo per i moderati. Quel progetto, che ha messo insieme dalla sinistra radicale a Barbara Lorenzi, ricordava molto di più la coalizione di Bersani del 2013, un progetto dove ci si affida ad alleati con cui si ha difficoltà di sintesi politica, che non il Pd di Veltroni e di Renzi a vocazione maggioritaria». E poi, aggiunge Filippi, «Miorandi non ha incarnato una politica tra la gente. Non basta essere giovani per incarnare il nuovo».

A sorpresa però, Filippi non invoca subito il congresso: «Capisco da un lato l’esigenza di fare chiarezza subito, ma per un partito lacerato dai personalismi - avverte - un congresso oggi rischierebbe di essere una competizione condizionata da riposizionamenti interni e meccanismi emotivi post-voto. Secondo me occorre invece decidere con coraggio di mettere al primo posto una riflessione sui temi e rilanciare l’iniziativa politica con una fase costituente in due direzioni. La prima è un serio processo di apertura che coinvolga da un lato i mondi che fanno riferimento al civismo e che alle comunali non siamo riusciti a intercettare, dall’altra l’area popolare (di Dellai, ndr) che si sta avvicinando al Pd anche a livello nazionale. La seconda è una conferenza programmatica che metta al centro i contenuti e dunque le ragioni del nostro stare insieme». Ma in un partito da tempo senza guida non è detto che a passare sarà questa linea.

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