Elsa, 98 anni «suonati»: una vita al pianoforte
Oggi è il compleanno per l’affascinante signora Triangi, insegnante di musica e concertista. Pochi giorni fa le hanno rinnovato la patente fino al 2014
TRENTO. Sotto un fascio di luce spiovente di una lampada dieci lunghe dita affusolate, su cui il tempo ha disegnato un reticolo azzurro delle vene, scattano, premono, saltellano, danzano, si arrestano, corrono a destra e a mancina. E poi si sollevano e poi ricadono. E si placano per tornare a precipitarsi qua e là sulla tastiera.
Vai con lo sguardo su su verso il dorso della mano che è segnato da una ragnatela di tendini, e poi un blusa verde giada copre le braccia e sul collo si adagia una collana di perle. Sopra, ancora, si appoggia il viso di questa pianista, con gli occhi verdi socchiusi nella concentrazione della suonata, i capelli bianco neve e ricci a scavalco delle orecchie ornate da due orecchini di perle.
Che bella questa donna che oggi compie 98 anni, bella come sanno essere belle tutte le donne anziane, bella perché alla sua età sa ancora inebriarsi e inebriare di musica. Le ho chiesto di suonarmi un notturno di Chopin e lei, un po’ appesantita sulle gambe, comunque si è affrettata dalla poltroncina al sediolo davanti al pianoforte a coda di Steinway.
Ora sospira, si concentra, abbassa il mento sulla collana quasi chiedesse umilmente il permesso al grandissimo autore di interpretarlo. Silenzio. E scoppia il tintinnio da fiaba. Questa musica malinconica che a tratti sembra un concerto di gocce di cristalli si diffonde in tutto il soggiorno dai moltissimi quadri, dai tappeti, da un caminetto spento ma che pare perfino ardere a quella musica, dalle lampade di pregio, dall’arpa centenaria, dalle foto incorniciate di lei che suona in concerti di tutto il mondo, lei, Elsa Triangi, qui giovane, lì, matura, sempre elegante, qui sorridente vis à vis con Rita Levi Montalcini che le sorride con gli occhi che non vedono più per ringraziarla di un paio di sonate in suo onore.
La signora mi chiede ora di alzarmi per spegnere la luce e mi invita a rimanere a tavolino, uno di fronte all’altro, lei con le mani che, dopo aver accarezzato la tastiera creando un’invincibile emozione, ora svolazzano davanti al viso, ora si appoggiano e si intrecciano per far parlare esse stesse a sostegno dei suoi concetti.
Ha novantotto anni, ma i suoi occhi ne hanno soltanto otto, tanto sono zeppi di voglia di vivere.
Più la guardo e più mi ripeto mentalmente, in una sorta di ossimoro di filosofie di vita, quella splendida poesia di Nunzio Carmeni: “Avanza l’ombra,/il giorno si riduce./ Quasi non vado più fuori casa./Le forze se ne vanno con la luce,/ questo autunno non ha più ricambio./Quasi tutte le foglie son cadute,/sulle rimaste va passando il vento./Anche se è più lieve di un sospiro,/è tenace, instancabile. Lo sento.”
No, Elsa Triangi, nata Vecchia, (quanto mai agli antipodi questo involontario gioco di parole) vedova da quasi 60 anni, sempre vissuta a Trento in via Mantova, figlia di una arpista e di un violoncellista e direttore d’orchestra, ha una saggia, razionale, ferma voglia di vivere, di vivere nella natura, abbracciata ai laghi trentini, muta amica dello scorrere delle acque dell’Adige che ancora quasi ogni giorno a passi lenti lei accompagna lungo la riva. Anche l’appartamento che abita qui alla periferia di Mattarello è in una casa circondata dal verde ordinatissimo.
Che bella questa signora che «non ha mai sofferto la mancanza della maternità perché, per figli, ha avuto centinaia e centinaia di allievi al pianoforte». «E pazienza se nessuno di loro é diventato un grande pianista. Qualcuno avrebbe potuto diventarlo soltanto se fosse vissuto in una famiglia, come la mia, in cui ci si nutriva di pane e di musica».
Che originale questa signora dai ricci bianchi che va a letto all’una di notte dopo aver guardato in tv con Sky tutto ciò che è possibile vedere sulla natura, sul verde, sugli animali. Che insaziabile questa signora che al mattino suona un paio di ore «per studiare».
Sorride, talvolta ride, diventa perfino civettuola quando, sgranando gli occhi verdi da bambina, si inorgoglisce perché pochi giorni or sono le abbiano riconfermato la patente di guida per altri due anni, fino al 2014.
Poi si fa severa con se stessa perché colta in un’amabile contraddizione. «Non ho nessun rimpianto, nessuna recriminazione», mi aveva garantito, aggiungendo, però, subito dopo che, giovane insegnante, con i suoi allievi era di un eccessivo rigore didattico. Aggrotta la fronte: «Chissà, forse pretendevo la perfezione».
Quando poi s’accorge che il mio sguardo fissa la grande arpa alle sue spalle poggia sul tavolo una mano a cucchiaio e con le dita dell’altra si sfiora i polpastrelli: «Capirà! – quasi piagnucola simpaticamente – mio padre Arturo, una volta diplomata in pianoforte, avrebbe preteso che suonassi anche l’arpa in onore e in ricordo della mamma. Poveri polpastrelli! Mi si sarebbero formati sopra i calli pizzicando continuamente le corde. E come avrei fatto con il pianoforte? Ma comunque suono anche l’arpa».
Che coinvolgente ed equilibrata questa signora che dopo 90 e più anni di pianoforte e di musica mette al primo posto dei valori l’amore per i mari e per i monti, poi quello per la cultura, e, dopo, ma solo dopo, quello per la musica. Che interessante e semplice questa signora che racconta senza pavoneggiarsi delle tre volte che ha suonato in Messico, che cita l’incontro di moltissimi anni fa con Uto Ughi, Accardo e Zubin Metha dei quali ai presenti a quell’incontro previde una carriera mondiale.
«Non leggo romanzi, le poesie non mi attraggono, molto meglio qualche biografia. Di più: leggo volentieri saggi sulla ricerca spirituale … sa – e i suoi occhi si colorano perfino di gioia - ringrazio il Padreterno che mi dà la forza e il piacere di stare serena pensando all’Al di là». Lo dice con fermezza e sussurra anche d’essere convinta che «la vita vera cominci quando si muore».
Che struggente, e non retorica, questa signora quando «rivede quell’angelo di bontà che è stato suo marito», e risente gli applausi nei suoi successi in giro per il mondo. Vorrei chiederle qualcosa sull’eredità morale che lascerà tra venti anni ai trentini e lei, capendo al volo dove andava a parare il mio giro vizioso di parole, mi stoppa con estrema grazia: «Una semplice cosa vorrei che i trentini sapessero. Che io, figlia di non trentini, non vorrei mai fossi nata in un’altra città diversa da Trento».
©RIPRODUZIONE RISERVATA