il concorso

"Arte contro azzardo", il racconto di Anna Bortuzzo

La storia di un giovane e l'ossessione del gioco



TRENTO. Per il concorso “Arte vs azzardo - Arts against gambling”, pubblichiamo il primo racconto pervenuto, a firma di Anna Bortuzzo.

 

ALE amico “Hei Ale, andiamo a farci una giocata?” Era partito tutto così, una domanda innocua, buttata lì. Io non sapevo, non conoscevo, non potevo prevedere. In fondo non era tanto, solo qualche euro, niente di più.

Quando sullo schermo apparve la combinazione vincente, diamine, fui io ad incitarlo a giocarne un’altra, che avrebbe vinto, ne ero sicuro, era la sua giornata fortunata.

Ovviamente non vinse, perse tutto. Io tornai a casa con pochi euro in meno e dimenticai. Lui tornò a casa dopo aver perso tutto, non dimenticò e pian piano perse anche la vita.

Subito non me ne accorsi, continuavamo ad uscire, ridevamo, andavamo al cinema, mangiavamo la pizza e parlavamo, era normale, come sempre.

Poi un giorno andammo al bar, e insieme al caffè ordinò una schedina. Fu lì che lo notai, per la prima volta: quello sguardo ossessivo, nervoso, irrequieto, mentre compilava il foglietto. Feci l’errore di non darci peso.

Poi iniziò a farsi vedere di meno, a volte spariva per giorni, quando tornava era silenzioso e frenetico, non raccontava mai e io non chiedevo. Vedevo quello sguardo ossessivo, il comportamento irrequieto e nervoso. Iniziò a chiedermi soldi, pochi spiccioli, scuse plausibili, sempre di più. Mesi dopo mi accorsi di avergli dato uno stipendio intero, a piccole rate, te li restituirò - sì certo come no – smisi di credergli e di prestargli soldi.

Lui si allontanò. Da me, dai suoi genitori, da amici e conoscenti. Solo in seguito seppi che aveva rubato soldi a suo padre, ricattato un’amica e prosciugato tante altre tasche. Quando ce ne accorgemmo, e capimmo, finalmente chiedemmo aiuto. Ma era sparito, non si trovava da nessuna parte, indebitato fino al collo era andato a cercare altri soldi, per poi perderli giocando d’azzardo.

Derubò la persona sbagliata. Ossessionato dal gioco si era dato al crimine pur di ottenere i soldi per continuare, nell’illusione della vincita, a perderli.

Quella sera, le sue scuse e suppliche non servirono, pugni e calci misero a tacere, oltre che la sua bocca, anche il suo cuore.

 

FRANCO padre Colpa di Ale, lo sanno tutti. È lui che lo ha incitato a giocarne un’altra, la prima volta, che avrebbe vinto, ne era sicuro, ora non lo sarebbe più.

Colpa di Ale che non ha fatto niente, non gli ha detto smettila, non gli ha tolto la schedina di mano, non gli ha chiesto che fine avesse fatto ogni volta che spariva. Colpa di Ale che gli prestava soldi senza chiedergli perché, che credeva alle sue innumerevoli scuse senza chiedersi nulla, che non dava peso a niente di ciò che stava accadendo.

Colpa di Ale che era un grande amico per lui, ma colpa anche mia, che ero suo padre. Anche questo lo sanno tutti: che la colpa è anche mia.

Colpa mia per non essermi accorto dei soldi che sparivano da casa, di quelle occhiaie profonde sotto gli occhi di mio figlio, di quella frenesia in ogni suo movimento. Colpa mia per non essermi accorto di star perdendo mio figlio, se non quando lo persi.

L’ultima volta che lo vidi mi stava derubando, le mani dentro il cassettone dove tenevo gran parte dei miei risparmi - che stai facendo? - Prendo un fazzoletto papà. - Ce l’aveva il fazzoletto in mano quando la tirò fuori, ma non sapevo che le tasche erano già piene di banconote.

L’ultima volta che lo vidi mi stava derubando, ma io non lo sapevo. Lo seppi quando la polizia chiamò a casa - Signore, suo figlio è stato trovato privo di vita dietro a un pub, è stato preso a calci e pugni fino alla morte. Abbiamo trovato l’aggressore, dice che suo figlio aveva appena giocato un sacco di soldi, tutti persi, era infuriato nero e gli ha chiesto di prestargli qualcosa, che avrebbe vinto, ne era sicuro, e gliene avrebbe restituiti di più. L’aggressore dice di aver rifiutato e sostiene che suo figlio l’abbia colpito con un coltello, minacciandolo. –

Mio figlio aveva un coltello e un sacco di soldi. Mio figlio era un giocatore d’azzardo, ossessionato, malato e disperato. Mio figlio rubava e minacciava per avere i soldi. Mio figlio era così disperato da uccidere a coltellate un uomo pur di ottenere dei soldi per continuare, nell’illusione della vincita, a perderli. Mio figlio aveva smesso di essere tale da molto tempo, il suo nuovo padre era il gioco d’azzardo, la sua famiglia i soldi.

È colpa di tutti, è colpa anche mia. È colpa di un padre che non ha saputo guardare negli occhi, nel cuore e nella testa di suo figlio.

 

LAURA amica È strano, perché in questa storia sembro un’eroina, l’impavida fanciulla che non si fa intimorire dal drago. Eppure il vero eroe non è questo, io sono un po’ come Achille nell’Iliade: egoista, egocentrica, ego ego ego. Esisto solo io. Io e i miei soldi. Se un amico sta male, se frequenta brutte compagnie, se cade nel vortice distruttivo del gioco d’azzardo non m’importa più di tanto, se l’è andata a cercare, sono cavoli suoi. Ma se tocca i miei soldi, quell’amico ha finito di essere tale. Ale me l’aveva detto:“Continua a chiedermi soldi, non so cosa ci sia dietro, ma la prossima volta voglio vederci chiaro, gli ho già dato uno stipendio intero”. Quando Ale gli ha negato il denaro è venuto da me. Ma due no di seguito erano troppi, o forse troppa era la fretta di avere i soldi, oppure semplicemente io ero una ragazza. Mi ha minacciata. Lo sguardo feroce, le occhiaie profonde, denti e pugni stretti: “Dammi i tuoi soldi o vengo a casa tua a prendermeli”. Ho avuto paura, chi non ne avrebbe, l’amico di sempre all’improvviso diventa il nemico, il principe si trasforma in rospo.

Ma l’ho detto: esisto solo io, io e i miei soldi. L’eroica fanciulla affronta coraggiosa il drago, ma non si chiede per quale motivo questo voglia ucciderla. La principessa si dimentica di baciare il ranocchio e non salva il bellissimo principe vittima dell’incantesimo.

L’incantesimo questa volta era davvero atroce, avrebbe portato alla morte. La vita non è una fiaba, non basta un bacio o un po’ di magia per far tornare tutto a posto. Quando seppi che era stato pestato a morte i miei soldi non mi consolarono per aver perso un amico, il mio egoismo non lo fece riportare in vita. Avrei potuto farlo prima, parlargli, chiedere aiuto, forse salvarlo. Avrei potuto osservare meglio il suo viso, i suoi occhi, il suo modo di fare. Avrei potuto capire cos’era davvero importante e invece non ci riuscii, non mi sforzai nemmeno.

 

STEFANO barista Ogni giorno, alla radio, trasmettono pubblicità sul gioco d’azzardo, ma senza mai nominarlo. Lo chiamano divertimento, scommesse e vincite. Ogni giorno milioni di persone compilano una schedina, entrano nelle sale giochi, scommettono. Io lo so bene. Nel mio bar il suono delle macchinette era costante, le schedine erano merce che andava, ed erano tanti i soldi che guadagnavo in questo modo, a discapito dei giocatori. Ma da alcuni mesi ho deciso di eliminare tutto ciò dal mio locale, non voglio più sostenere il gioco d’azzardo, non voglio più essere partecipe della rovina della società. A farmi riflettere su ciò e a portarmi a questa decisione è stato un articolo del vostro giornale, pubblicato qualche mese fa. Raccontava dell’ennesima vittima del gioco d’azzardo, storia triste, il ragazzo è morto. Il viso nella fotografia mi era familiare, quel ragazzo frequentava spesso il mio bar, assieme al caffè ordinava una schedina.

Alcune settimane dopo l’articolo, un giovane entrò nel mio bar, mi chiese se ci guadagnavo molto con le macchinette, aveva il tono sprezzante, l’aria scontrosa. Poi vide il foglietto che avevo attaccato sul bancone In questo bar non è più possibile scommettere né giocare d’azzardo. Non voglio essere responsabile della vostra rovina. Il gioco d’azzardo uccide. Vicino avevo attaccato la pagina del vostro giornale con la foto del ragazzo morto. Sulle macchinette avevo appeso un cartello che riportava Non funzionanti in attesa che venissero a rimuoverle. Il ragazzo tacque, mi guardò, mi chiese scusa. Poi mi raccontò.

Si chiama Ale ed era un grande amico di quello nella foto. La sua morte è anche causa sua, ma non solo. Un po’ di tutti: della famiglia, degli amici, dei conoscenti, dello Stato e dei baristi. Anche mia. Ma è ora di cambiare, – dice – è ora di agire. Per questo sta facendo il giro di tutti i bar e delle sale gioco del territorio. Vuole far capire alla gente quanto sia pericoloso il gioco d’azzardo, quanto false siano le promesse di vincita, quanto lo Stato ci guadagni e quanto gli altri ci perdano. Anche la vita.

Fa il giro dei locali, cerca di convincere i baristi a togliere le macchinette, individua i giocatori abituali e li invita a cambiare, che si può ancora, non è mai troppo tardi. Dà loro un indirizzo, là vi aiuteranno. È un centro di recupero per i giocatori d’azzardo, l’ha fondato poco tempo fa un’amica di Ale, si chiama Laura, era stata ricattata dal ragazzo della foto. Anche lei ha deciso che è ora di agire, di cambiare, di aiutare chi da solo non ce la può fare. Aveva tanti soldi e ne ha investiti molti per questo centro.

Ho scritto questa lettera al vostro giornale perché voglio far sapere la mia e la loro storia, ma soprattutto perché vorrei che questa società cambiasse, che la gente si rendesse conto di quale spietato veleno ci sta rovinando, che chi è vittima del gioco d’azzardo uscisse da questa prigione. È morto un ragazzo dietro a un pub. È stato pestato a morte. Rubava soldi al padre, minacciava gli amici e chiedeva prestiti che non avrebbe mai restituito. Era l’ennesima vittima del gioco d’azzardo, ossessionato a tal punto da accoltellare una persona se questa non gli avesse dato dei soldi. Gli servivano, i soldi. Doveva continuare a giocare, perché avrebbe vinto, ne era sicuro. Così sicuro da scommetterci la vita. Ha perso.













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