«È ora di rompere il monopolio maschile in Italia»

La sociologa Saraceno: «Le donne faticano a fare carriera, le quote aiutano a togliere i tappi e agiscono sulla cultura»


di Chiara Bert


TRENTO. «Appartengo a una generazione in cui le donne studiavano meno degli uomini, quindi eravamo molto poche ad entrare nel mondo del lavoro, ad arrivare alla laurea e soprattutto a cercare la carriera nell’università». Inizia così la chiacchierata con la professoressa Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, da settembre scorso nel cda a maggioranza «rosa» dell’Università di Trento. Quando vi arrivò per insegnare era il 1969, aveva 22 anni ed era l’unica donna del corpo docente.

Professoressa Saraceno, come ricorda quel periodo?

Eravamo poche ma non per questo valorizzate. Anzi, eravamo mosche bianche, considerate del tutto marginali. Io ho fatto carriera molto più tardi dei miei colleghi uomini con cui siamo entrati insieme in ateneo. Ricordo un concorso in cui tra l’altro ci dicevano “beh, passa già quell’altra”, come se ci fosse una quota implicita. Erano gli uomini, in parte lo sono ancora, in posizione di decidere chi entrava e chi no, che difendevano strenuamente la propria quota. Potevano essere divisi su tutto, politicamente, culturalmente, ma in questo erano assolutamente uniti. Il problema delle quote delle donne, lo dico da anni, è il monopolio maschile.

Essere donna è stato un ostacolo?

Ho fatto fatica. Non mi ha neppure aiutato il fatto di occuparmi di argomenti particolarmente sensibili, e in modo non convenzionale. Sia nei concorsi sia nel dibattito anche in consiglio comunale a Trento, non era chiaro se venivo giudicata come studiosa, come donna, moglie, madre. Ricordo un mio collega in una commissione di concorso in cui venni bocciata perché “avevo distrutto la famiglia italiana”, che mi disse: “Dicono cose così terribili su di lei, invece mi sembra così per bene, le sue figlie così educate”. Mi chiesi: ma di cosa parlano quando discutono di me come docente universitaria? A un uomo non sarebbe mai successo. Anzi, se avesse avuto una vita allegra, magari avrebbero commentato: beato lui.

E oggi le cose come vanno?

Meglio, ma se guardiamo i dati, vediamo che nonostante ci sia stato un aumento, tra i professori ordinari le donne sono ancora troppo poche rispetto al fatto che sono passati più di trent’anni da quando si è chiuso il gender gap nell’istruzione. Quando io sono diventata ordinaria è scattato il 10% di donne, adesso siamo al 25%. E l’Università di Trento è messa peggio della media italiana nella classe docente, mentre ha questa cosa incredibile di avere un consiglio di amministrazione a maggioranza femminile e una rettrice donna.

Perchè le donne continuano ad incontrare ostacoli nella carriera?

Ci sono dei blocchi, in parte perché nei concorsi prevalgono ancora gli uomini. Le donne non vengono viste, o le vedono dopo. Per questo continuo a dire che il problema non è la quota femminile, ma quella maschile.

Le quote di genere sono una forzatura necessaria per raggiungere un maggiore equilibrio?

Servono meccanismi che rompano il monopolio maschile. Io non sono mai stata una fan delle quote rosa. Ma bisogna rovesciare lo schema, sono gli uomini che non possono avere più del 70%, non le donne a dover avere il 30%. E poi chi dice che non ci sono donne adatte? Perché gli uomini sono adatti per natura? Il problema del merito viene posto sempre quando si parla di donne. In un mondo perfetto senza monopolio maschile non ci sarebbe bisogno di correttivi. Ma viviamo in un mondo lontano dalla perfezione, in cui gli uomini danno per scontato che ci si debba scegliere tra di loro, quando preparano le liste e quando sostengono i candidati. E in cui le donne sono meno visibili, dato che non fanno carriera neanche fuori dalla politica. Quindi non vengono in mente, basta pensare a Napolitano che nominò i suoi saggi, tutti uomini, e di fronte ai rimproveri disse “Non c’era nessuno in quelle posizioni”. Appunto, il problema è lì.

Con la doppia preferenza obbligatoria uomo-donna si interviene sul momento del voto, la massima espressione democratica. È giusto?

Nessuno è obbligato a dare una preferenza a una donna, allora si accontenti di una preferenza sola. Si impedisce che ci sia un cartello tutto maschile. Dopodichè a mano a mano che ci saranno più donne nei posti, le donne stesse si selezioneranno meglio e le persone troveranno più normale vedere le donne in certe posizioni, e quindi il problema sarà superato e speriamo che le quote non servano più.

Accanto a questi meccanismi serve un lavoro culturale per favorire la parità di genere. Su questo fronte come siamo messi?

La norma sulle quote rosa nei consigli di amministrazione è buona non tanto e non solo perché mette più donne ma perché toglie i tappi, perché per avere più donne con le caratteristiche necessarie nei cda, occorre consentire l’accesso delle donne anche ai livelli inferiori. Questo ha un effetto culturale importante, fa capire alle donne che vale la pena investire sulla carriera.

E sulle politiche familiari, cosa manca ancora?

Il congedo di paternità obbligatorio per due giorni è puramente simbolico, diciamo che fa ridere. Il problema vero è che il congedo è poco pagato, solo i primi 6 mesi e al 30%. Si può davvero riequilibrare le responsabilità di cura dei figli se c’è un periodo consistente in cui il padre è il maggiore responsabile della cura. Dopodiché questo non è un periodo favorevole né per gli uomini né per le donne per prendersi congedi, pena il rischio di perdere il posto. E del resto è difficile persino avere un figlio, soprattutto se hai un contratto precario.

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