Ciclismo e ombre, «Pantani è stato tradito»
A Riva le parole di mamma Tonina hanno ripercorso la parabola del campione: gli inizi a 14 anni, le vittorie, la voragine della depressione e della droga fino alla morte
RIVA DEL GARDA. È stata una serata carica di emozioni forti quella vissuta alla Spiaggia degli Olivi di Riva del Garda mercoledì sera, dove tifosi, ammiratori, fan e anche amici di Marco Pantani si sono riuniti per ascoltare dalla voce di Francesco Ceniti (giornalista della Gazzetta dello sport) e della mamma Tonina Pantani le storie e gli aneddoti che, nonostante i 19 anni trascorsi dalla morte di Marco, fanno in modo che il suo ricordo sia ancora vivido, toccante e coinvolgente non solo in coloro che le gesta del “pirata” le hanno potute seguire in tivù, per strada o alla finestra ma anche nelle nuove generazioni.
«Il mio Marco era un bravo ragazzo - ha detto visibilmente commossa Tonina, in collegamento da remoto, intervistata da Cristina Sartori - Era generoso, sempre disposto ad aiutare. Amava i bambini. Oggi, se fosse qui, ne avrebbe 3 o 4 almeno. Dopo la sua morte ho scoperto che faceva molta beneficenza, in silenzio, senza dirlo a nessuno e noi, con la Fondazione Pantani, continuiamo a farne, ad aiutare nel suo nome. Me lo hanno ammazzato, non smetterò mai di cercare a verità, la giustizia».
La storia che emerge da questo racconto a due voci che ripercorre quanto scritto nel libro “In nome di Marco” è più o meno questa: il talento di Marco viene scoperto quasi per caso quando 14enne, sfida per semplice gogliardia a bordo di una vecchia Graziella ma sul suo terreno migliore, in salita, due professionisti che, seminati, raccontano quanto accaduto al loro dirigente sportivo. Quest’ultimo non ci pensa due volte e si presenta a casa di Marco per ingaggiarlo.
«Il padre gli aveva appena comprato gli scarpini da calcio - ha raccontato Tonina - Non voleva proprio che corresse in bici. Lui invece testardo com’era riuscì a convincerlo» e piano piano, salita dopo salita, infortunio dopo infortunio arrivò, tra il 1994 ed il 1998, a vincere tutto.
Il 5 giugno 1999, all’apice della sua carriera, Pantani fu sottoposto ad un test dell’ematocrito cui risultò positivo ed è questo il preciso momento della sua vita che, come uno spartiacque, traccia un netto confine tra il prima ed il dopo, tra l’ascesa e la discesa, quella peggiore, quella nella doppia voragine depressione/droga.
«L’hanno voluto incastrare. Marco non solo era scomodo per gli interessi economici delle altre squadre ma era anche il ciclista più forte al mondo, quello che si doveva colpire per dare un segno forte circa il pugno duro dell’ Uci con riferimento alla questione doping - ha raccontato Ceniti - E tutto questo è ben spiegato nel libro: come quel test non solo non sia stato fatto seguendo il protocollo ma anche di come, se tempestivamente contestato, non avrebbe fermato Marco permettendogli di scrivere tutt’altra storia sia nel ciclismo che nella sua stessa vita. Lo hanno trattato come un drogato. Nessuno si è preso la briga, nemmeno i giornalisti, di spiegare che il test cui era stato sottoposto Marco non era un antidoping, che la sospensione cui si andava incontro con il valore sopra il 50 era cautelativa della salute del ciclista stesso e soprattutto nessuno, nell’immediatezza, ha sollevato dubbi sullo svolgimento del prelievo che, per più errori, non era stato eseguito in maniera regolare». Marco sprofonda nella depressione e incontra la droga. «Era circondato dalle persone sbagliate, prima tra tutte la sua manager» ha ripetuto mamma Tonina.
Marco però è un tipo tosto, si ripulisce della droga e, con non poca fatica, prova a rialzare la testa, torna in sella, centra alcuni ottimi risultati dimostrando di esser tornato il “pirata” ma nonostante questo non viene invitato al Tour de France. «Era l’unico che poteva infastidire Armstrong che però garantiva al giro i diritti delle tivù americane - ha raccontato Ceniti - Questo episodio, questa ennesima porta in faccia ha fatto ripiombare Marco nella depressione. Per lenire il suo dolore ha ripreso ad utilizzare droga» ha raccontato la mamma in lacrime. Fino a quando una sera, quella di San Valentino del 2014, viene trovato morto nella stanza di un residence di Rimini. Overdose fu l’esito dell’autopsia ma qualcosa non torna, i pezzi del puzzle non si incastrano, restano spazi vuoti, coni d’ombra che la mamma e lo stesso Ceniti , ascoltato anche in commissione antimafia, stanno cercando di riempire per rispondere alla vera domanda “Marco è stato ucciso?”.
«Me lo hanno ucciso - ha ripetuto mamma Tonina - troppe cose non tornano e poi c’è quel video che mostra cose diverse da quanto dichiarato dai soccorritori che per primi arrivarono sulla scena». 120 persone in rispettoso silenzio per due ore, sfidando un vento freddo e le nuvole nere sopra la testa, mercoledì hanno ascoltato, quasi rapiti, questa storia. «Ci sono sportivi che per le loro gesta lasciano un segno indelebile nella storia della loro disciplina, ci sono sportivi che parimenti, per il valore umano, il carisma e la genialità, lasciano un segno indelebile anche nel cuore delle persone. Sono quelli che poi chiamiamo leggenda - ha affermato Cristina Sartori - parlare di Marco non è stato semplice, la sua storia sia sportiva che umana è complicata, un saliscendi continuo, quello che piaceva tanto al “pirata”, ma ringrazio la libreria Mondadori Bookstore, Colibri di Riva del Garda che mi ha voluta su questo palco».