LA STORIA

Le lettere di Natale dal fronte russo del padre alpino mai tornato dalla guerra 

Filiberto Piccoli è uno dei 75 mila dispersi italiani in Russia.  Per sei mesi ha scritto tutti i giorni al figlio di 11 mesi e alla moglie. Le ultime lettere per il Natale del 1942


di Luca Fregona


BOLZANO. Il bene più prezioso per Giuseppe Piccoli sono 190 lettere. L’unica cosa che gli è rimasta del padre Filiberto, detto Berto, morto a 30 anni nel gennaio 1943. Scaraventato a 4 mila chilometri da casa a difendere la “linea del Don” dall’Armata Rossa. Lettere e cartoline spedite (anche due al giorno) dal fronte. Un documento storico eccezionale che ora è stato raccolto nel volume «Caro Lili, lettere dal Fronte russo 1942-1943». “Lili” è lui, Giuseppe, che quando Berto partì aveva appena 11 mesi. Oggi, che di anni ne ha 77 e gli assomiglia come una goccia d’acqua, ha deciso di rendere omaggio al papà mai conosciuto. «Non ho nessun ricordo di lui - racconta - ero troppo piccolo. Ma nella mia famiglia ha lasciato un vuoto profondo. Mia madre Ernesta non si è più risposata, ha sempre sperato tornasse...». Giuseppe abita ancora nella stessa casa al 10 di via Claudia Augusta, comprata dai nonno materno Clemente Naletto negli anni Trenta appena arrivati a Bolzano dal veronese. La storia di Berto è quella di migliaia di soldati italiani inghiottiti dalle steppe e di cui non si sa più niente. Nemmeno se e dove siano seppelliti.

Filiberto Piccoli parte per il fronte ai primi di luglio del 1942. È un artigliere alpino assegnato al Comando del Corpo d’Armata con mansioni di portaordini. Un incarico che lo mette a stretto contatto con il servizio postale dell’Esercito. Scrive su tutto quello che capita: cartoline postali e illustrate, carta intestata del fascio, cartoline di propaganda, fogli recuperati chissà dove e infilati in una busta. Nel libro, curato egregiamente dal genero di Giuseppe, Roberto Santi, accanto al documento originale viene trascritto il testo, mantenendo gli errori di ortografia. Berto, ad esempio, sbaglia tutte le doppie, azzoppandole alla “veneta”. Ma la scrittura è intensa e commovente. La grafia minuta ed elegante. In ogni messaggio il primo pensiero è per “il piccolo Lili” e la moglie Ernesta. Non parla mai della guerra, non nomina mai il fronte. E la rigida censura militare non gli impedisce un'infinita tenerezza che non ha nulla di marziale. È un bisogno quotidiano il suo. Scrivere è il filo che lo lega a casa.

Berto arriva in zona di combattimento la sera del 28 luglio 1942 dopo un mese di tradotta: «Carissimi tutti, vi scrivo da oltre 4000 km di distanza. Mi trovo molto bene per ora, speriamo anche in seguito».

Ricorda sempre i genitori («Caro Papi mi sento una nostalgia ad averti lasciato ma spero presto di darti un grosso bacio»), gli amici, le tre cognate Maria, Pia e Gelma che nomina una per una e rimprovera bonariamente se non gli mandano “notizie”. A volte i messaggi sono stringati. Tre righe giusto per dire «non state in pensiero per me». Altre entra nei dettagli della vita familiare. Dà disposizioni molto precise sulle spese domestiche, sui lavori da fare. Quando può, manda un vaglia. Lui è all’inferno ma tiene tutto dentro. Li protegge. Con il passare delle settimane, i testi diventano essenziali, telegrafici. I militari italiani muoiono come mosche. Berto è un ragazzo di 30 anni che vede solo sangue e distruzione. Non smette di chiedere di Lili. «Comincia a camminare da solo? Quanti dentini ha fato? Mi fa piacere sapere che è così svelto e belo».

In ogni riga traspare nostalgia. Il rammarico di perdersi momenti irripetibili, anche la consapevolezza che, forse, Lili, non lo rivedrà più. Si sente alla deriva. «Carissima Ernesta, eccomi a raccontarti un po’ della mia solitudine...». Quando gli mandano da casa le «care fotografie» è una boccata d’ossigeno. «Grazie, che a me fa tanto piacere di vedere il mio caro Lili. Sono rimasto molto contento perché vi vedo tutti in buona salute». Se la posta non arriva, sale l’ansia. La paura irrazionale di non essere ricordato. «Ormai è da 10 giorni che non prendo vostre notizie, vi prego di scrivermi subito». E ancora: «Grazie della lettera giuntami oggi stesso, che ormai credevo proprio di essere già dimenticato».

Ai primi di ottobre il maggiore Giuseppe Righi, bolzanino di Oltrisarco al fronte insieme a Berto, viene spedito in licenza per assistere il padre morente. L’occasione per mandare e ricevere notizie da Bolzano e farsi portare qualcosa: «Vi raconterà la nostra vita in Russia... - scrive - Cara Ernesta fammi il piacere di comprarmi un orologio da braccio formato quadrato magari usato e non spendere più di 100 lire. E poi una bottiglia da mezzo litro di cognac, un po’ di sigarette e borotalco. Una lampadina per la mia pila e un po’ di aspirine. E le sigarette più che potete perché io apena le prendo le vendo subito. Consegnatele a Righi».

Il 14 ottobre arriva l’ordine di resistere a oltranza. «È la fine», pensa Berto. «Carissima Ernesta non pensare male se non prendi spesso mie notizie, perché adeso la posta area è abolita e così ti devo scrivere per via ordinaria. Riguardo il freddo, comincia a farsi sentire ma sempre asciuto. Il mio caro Lili che fa? Ti racomando di non fargli mancare nulla. Tante notti mi sembra di averlo qui vicino...».

Ai primi di dicembre, accolto come una specie di Babbo natale, il maggiore Righi torna carico di pacchi. Berto scrive subito: «Io carissimi sono stato molto contento di voi e della vostra cara gentilezza».

Manda una cartolina illustrata con gli auguri di Natale e una scritta vergata a mano: «Fronte Russo, 5 dicembre 1942», i giorni più duri per i nostri alpini. Disperati, allo sbando, mal equipaggiati, in perenne contrasto con i soldati tedeschi.

Sul retro delle cartoline gli slogan surreali della propaganda: «Senza il grasso il cannone non spara»; «Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione»; «La responsabilità della guerra ricade solamente sulla Gran Bretagna».

La sciagura è imminente. A Lili, Berto manda una cartolina dell’Armir (l'8ª Armata italiana in Russia, ndr): la vignetta di un alpino in tenuta da montagna, sorridente nelle neve. La fiaschetta in mano e la scritta “Buone feste”. Come dire: non ti preoccupare, è Natale anche qui, non aver paura per il tuo papà. Giuseppe Piccoli l’accarezza ancora oggi con infinita dolcezza, 76 anni dopo.

Il 13 dicembre 1942 Berto scrive: «Oggi Santa Lucia, il mio pensiero ai miei cari lontani, per il mio caro Lili di certo sarà stato un giorno di tanti regali». Lo stesso giorno il Comando del Corpo d’Armata Alpino consegna ad Ernesta un premio di 100 lire per «l’esemplare contegno in servizio, l’alto senso del dovere e l’operosità del militare in oggetto, vostro congiunto». Moduli prestampati, retorica burocratica.

Il 25 dicembre gli alpini dell’Armir sono accerchiati. Gli scontri sono durissimi con migliaia di morti e dispersi. Berto non smette di scrivere: «Carissimi tutti, oggi giorno del Santo Natale il mio pensiero ai miei cari lontani, che in questo momento che vi dedico queste mie due righe mi sembra di essere a voi vicino...». La posta dall’Italia non arriva e la solitudine è straziante: «Non so capire, è da 15 giorni che non prendo vostre notizie, non voglio credere di essere dimenticato». Lui non lo sa ma da settimane ormai le lettera di Ernesta tornano indietro. E le sue arriveranno solo mesi dopo in Italia.

Ai primi di gennaio promette: «Quando tornerò vi farò dei bellissimi regali».

Rimprovera amorevolmente le cognate: «Forse cominciate a dimenticare il vostro amico lontano? Non ricordate le belle risate che vi facevo fare? Guardate che io vi ricordo e vi penso giornalmente, e non trovo scuse per scrivere due righe, perché alle care persone non c’è tempo che ostacola...». Gli alpini vengono chiusi nella sacca. L’unica speranza è rompere l’«anello» russo e ritirarsi. L’ultima lettera è del 13 gennaio, un’innocente bugia: «Alle care persone lontane, qui sempre bene, la salute ottimamente, così spero sia di voi tutti, compreso il caro Lili. Un forte abbraccio con un presto arrivederci, vostro Berto». Probabilmente muore il 17 gennaio. Forse ucciso, forse di freddo. Ernesta, che non sa nulla, continua a scrivergli divorata dalla preoccupazione. 2 febbraio 1943: «Berto Carissimo, dopo un lungo mese di tuo silenzio, oggi mi sono giunte 4 tue lettere e parecchie cartoline. Non puoi immaginare caro Berto che giorni d’angoscia ho passato e sto tuttora passando finché non avrò nelle mani tuoi scritti in data più recente». Nel maggio 1943 un compagno reduce dalla Russia, che ha perso una gamba nella battaglia, scrive ad Ernesta di averlo visto vivo l’ultima volta il 17 gennaio, ma di non conoscere il suo destino. Il maresciallo Righi rientra nell’estate del ’45. La rincuora: «Non sappiamo niente di lui, ma è così per migliaia di italiani. Non è detto sia morto». Anni dopo però racconterà a Giuseppe: «Eravamo accerchiati, ognuno pensava a sé, cercando di uscire dalla sacca e salvarsi. Berto è sparito nella neve». Dopo la guerra altri alpini busseranno alla porta di via Claudia Augusta per portare conforto e mezze voci. C’è chi è sicuro sia stato fatto prigioniero. Chi crede di averlo visto durante le ritirata... Ernesta chiede notizie alla Croce rossa, allo Schedario mondiale dei dispersi, ai compagni sopravvissuti alla mattanza, a quelli tornati dalla prigionia. Non si arrende. Segue ogni possibile pista, ogni traccia, verifica ogni segnalazione. Deve fare tutto da sola. I dispersi in Russia sono migliaia e migliaia, circa 75 mila. Ogni famiglia deve arrangiarsi. Il tempo scorre. I giorni diventano settimane, le settimane mesi, i mesi anni.

Il 26 ottobre 1967 arriva a casa la “Croce al merito di guerra”. Filiberto Piccoli, classe 1913, disperso in Russia per la Patria. Fine della storia. Ma non per lei, che non si rassegna e continua a cercare.

Ernesta muore a 93 anni nel 2006, agitandosi ancora ad ogni squillo di telefono o se qualcuno batte alla porta. Anche la sua vita, in fondo, è finita sul Don nel 1943. «Non ha mai creduto fosse davvero morto - dice Giuseppe - . Lo ha aspettato fino all’ultimo giorno».

E Lili? È stato talmente segnato da quelle 190 lettere da viverle come una “chiamata”, una specie di vocazione. «Le ho lette migliaia di volte. E ogni volta ho la sensazione che lui sia qui, accanto me. È qualcosa di molto forte che supera la morte. Da piccolo ho giurato che avrei fatto di tutto perché le persone continuassero a ricevere lettere e cartoline. E così è stato». Per 40 anni ha lavorato, con grande dedizione, alle Poste.













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