Dalla bisnonna selvatica della vite i geni della resilienza
Grazie a uno studio dell'Università di Trento e della Fondazione Mach la riscoperta nella vite selvatica di geni andati perduti nei processi di domesticazione
TRENTO. La vite selvatica, antenata della vite europea coltivata in tutto il mondo, è una fonte preziosa per il miglioramento genetico nell'agricoltura sostenibile. Possiede infatti delle peculiarità «innate» che, se recuperate attraverso il miglioramento genetico, potrebbero conferire maggiore resilienza alla vite domestica per quanto riguarda il cambiamento climatico, la resistenza al deficit idrico, le alte temperature e gli attacchi di patogeni.
Lo dimostra uno studio coordinato dai ricercatori del Centro agricoltura alimenti ambiente, struttura accademica congiunta Università di Trento - Fondazione Edmund Mach (C3A), in collaborazione con l'Università della California, pubblicato sulla rivista «Horticulture Research» del gruppo Nature. Finora i programmi di miglioramento genetico della vite si sono concentrati solo sulle resistenze presenti nella specie di Vitis americane.
Il team internazionale di studiosi, invece, ha voluto confrontare 48 vitigni di Vitis vinifera sativa - quella attualmente coltivata - con 44 individui di Vitis sylvestris, ovvero il progenitore selvatico, risequenziandone parzialmente i genomi e scoprendo ben 55.000 polimorfisimi di singolo nucleotide (Snp). Studiando le differenze tra sottospecie coltivata e selvatica, i ricercatori sono riusciti a riscoprire geni o varianti geniche andati perduti nei processi di domesticazione, che invece in passato erano stati utili alla pianta selvatica per sopravvivere alle difficoltà dell'ambiente.
La domesticazione, infatti, si è concentrata soprattutto sugli aspetti legati alla qualità del frutto, dando però vita a specie più dipendenti dalle pratiche agricole (fertilizzazione, irrigazione, diserbo e difesa) rispetto a quelle antiche. «La ricerca sul genoma della vite a San Michele all'Adige si conferma ancora una volta all'avanguardia, con una forte vocazione internazionale e con una predilezione per tematiche che hanno una forte valenza applicativa per l'agricoltura», sottolinea il presidente della Fondazione Edmund Mach, Andrea Segrè.