La vita blindata del cronista minacciato dalla mafia
Ma cosa vuol dire, in pratica, vivere sotto scorta? Lo capisci per davvero soltanto quando ti imbatti in un giornalista come Lirio Abbate e ci trascorri assieme alcune ore.
In realtà, per comprenderlo basta che gli mandi un messaggio sul telefonino per invitarlo - lui ospite della tua città e del festival del tuo giornale - a prendere un caffè in centro. Lo fai per cortesia, come faresti con un amico, senza pensare che passeggiare in libertà per il centro, con Lirio Abbate, è impossibile. Lo sarebbe anche con Roberto Saviano, certo, o Giovanni Tizian della Gazzetta di Modena o con Sandro Ruotolo. La lista dei colleghi giornalisti con cui sarebbe impossibile bere un caffè in centro città è, purtroppo, molto lunga perché sono ancora tanti, troppi, i cronisti sotto scorta perché minacciati dalla mafia per aver fatto bene, forse meglio degli altri, il proprio lavoro.
Queste cose, però le senti lontane. «Vivere scortati» è una frase che qui in Trentino non ha sostanza. Ma che prende plastica forma non appena incontri Lirio Abbate. Che il famoso caffè, piuttosto, ti invita a berlo nel suo albergo. Te lo dice delicatamente, in un sms, e tu - in quel momento - ti senti un povero ingenuo.
Poi lo vedi arrivare a Palazzo Geremia all’ultimo minuto prima del suo intervento e capisci che non è bene che una persona minacciata dalla mafia stia in un luogo pubblico troppo a lungo. Lo vedi appartarsi nelle salette con i colleghi delle tv per le interviste e, fuori dalla porta, ti accorgi che ci sono sempre loro, i quattro angeli custodi della scorta, che non lo perdono di vista. E ci sono sempre loro, con quella presenza discreta ma rassicurante, a fianco al tavolo dove avviene l’intervista. E dove ci sei anche tu.
Dopo il nostro evento pubblico di sabato scorso a Palazzo Geremia, con Lirio Abbate ci risentiamo quello stesso pomeriggio. Gli devo riconsegnare alcuni documenti che abbiamo utilizzato in mattinata. «Passo io in redazione a prenderli» - mi dice. Ci arriva poco dopo su un’auto che mi pare avere i vetri blindati e dietro la quale ne viaggia una seconda con a bordo altri agenti di scorta.
Mi sento un po’ in colpa perché - mi dico - quei documenti potevo portarglieli io in albergo. Ma alla fine penso che, forse, è meglio così. Almeno nel piccolo tragitto che separa il suo albergo dalla redazione Lirio ha potuto godere di un piccolo scorcio della nostra città, dove non era mai stato. Almeno l’ha vista.
Dal finestrino.