Il caso Moscon e il nostro "razzismo"
Gianni Moscon ha sbagliato. Schiacciato dallo stress di una volata a 60 km/h, dopo aver corso il rischio di finire sull’asfalto, ha rivolto offese di stampo razzista ad un collega. Gianni ha capito di aver sbagliato e si è scusato, subito. E adesso pagherà il conto: il provvedimento disciplinare della sua squadra, il Team Sky; e forse anche una squalifica da parte dell’Uci, che sulla vicenda sta per aprire un’inchiesta. Il campioncino noneso potrà difendersi nelle sedi opportune, ma poi farà bene a sorbire l’amaro calice senza cercare giustificazioni, perché per quello che ha fatto non ce ne sono.
Appresa la notizia, mi sono subito chiesto come una cosa del genere possa essere successa proprio a Gianni: ho avuto modo di conoscerlo, pedalando assieme a lui, e mi è parso il più serio e pacato ciclista del mondo. Ferma restando la nettezza del mio giudizio su quanto è avvenuto al Giro di Romandia, credo a Moscon quando sostiene di non essere un “razzista”. Non lo è, o meglio, non lo è più di quanto non lo siamo tutti, o quasi. Perché di una pur minima dose di razzismo “latente” siamo pervasi un po’ tutti. Forse, più che razzismo, potremmo chiamarla diffidenza, timore nei confronti del “diverso”, sentimento negli ultimi decenni acuito dal fenomeno, sempre più importante, delle migrazioni, ben descritto nel 1988 nel suo libro dal titolo Gli italiani sono razzisti? dal grande Giorgio Bocca (leggetelo, è attualissimo, premonitore e illuminante).
Quando poi al nostro razzismo “latente” si aggiunge quello mal celato di tanti media e di altrettante forze politiche, il tranello al benpensante è presto teso: sono sempre di più coloro che, sui palcoscenici della politica e sui giornali, sono pronti a sventolare odiosissime bandiere – da ultimo lanciando ignominiose accuse a chi strappa decine e decine di profughi dalla morte in mare – con l’unico, volgarissimo scopo di raggranellare voti, aumentare le tirature e raccogliere qualche follower in più. Beceri mestatori perfettamente impuniti, ingigantiscono le nostre paure, gonfiano le nostre inquietudini, giustificando l’esplicitazione di pulsioni appunto altrimenti latenti. Assieme a Moscon, squalifichiamo anche loro.