Ho un telefono cinese, ma bevo il latte trentino (che non ha prezzo). Ecco perché
Ho un telefono cinese e una giacca vietnamita, ma la mattina bevo - sempre - una tazza di latte trentino. Talvolta bevo latte anche la sera, perché - in barba a qualsiasi dieta - ho imparato fin da piccolo che una tazza di “panelatte” (alimentazione decisamente vintage che fa inorridire i miei figli tirati su a biscotti) è quello che ci vuole per riempirti la pancia quando brontola. L’ho imparato negli anni in cui a casa nostra si mangiava pure “riso e latte” e una specie di polenta fatta con il latte con un nome stranissimo (“dufa”) che solo a scriverlo mi viene nostalgia: deve essere perché i miei nonni, da entrambe le parti, hanno tenuto una vacca nella stalla abbastanza a lungo perché la potessi vedere pure io che sono nato negli anni Settanta.
Nel frattempo mi sono messo in tasca un telefono cinese, guido un'auto giapponese, indosso vestiti confezionati in varie parti dell’Asia e dell’Est Europeo, ordino su internet prodotti che - chissà come - mi arrivano a casa il giorno dopo, ma ho puntato i piedi come un mulo quando - al momento di rivestire i pavimenti della nostra nuova casa - ci hanno proposto (orrore!) una partita di larice siberiano. Una proposta indecente per noi che i boschi di larice li vediamo diventare gialli in autunno dalle finestre della casa di montagna: vade retro.
E poi c’è il latte. Quest’estate mi sono voluto togliere la soddisfazione di percorrere (al contrario) il viaggio che ogni giorno compie il latte con cui ogni mattina riempio la mia tazza. Non c’è voluto molto: dopo venti chilometri sono arrivato a destinazione, nel cortile di una stalla a conduzione familiare dove ho scoperto - con una certa curiosità - la sorte comune di allevatori e giornalisti, condannati a lavorare anche nei giorni di festa.
Quando guardi negli occhi l’uomo del latte (e le sue vacche) ti passa la voglia di contare i centesimi alla cassa del supermercato. Perché impari che i prati e i pascoli su cui ti piace camminare l’estate sono un paesaggio che esiste finché esisterà l’agricoltura di montagna. Impari che la colonna sonora che tanto amiamo ai piedi delle Dolomiti (cioè il risuonar dei campanacci che d’estate non smette nemmeno di notte: fateci caso) è parente stretta del latte che bevi la mattina. E del burro che gente ostinata come me continua a spalmare sul panino. Impari che un camion che percorre 20 chilometri è molto (ma molto) meglio di un camion che ne percorre 200.
E’ un mondo difficile. Per rimanere a galla bisogna imparare tutti a fare di più con meno. Ci sono aziende capaci di convincerti che il loro latte è il più buono che ci sia, altre che invece te lo vendono a metà prezzo. Ma i consumatori devono sapere che in questo mondo globale il latte di casa propria (almeno quello) non ha prezzo.