«Vi spiego perché non è più lavoro ma sfruttamento» 

Sabato a Trento e domenica a Rovereto Marta Fana e il suo libro sulla precarizzazione 


di Paolo Morando


Sarà a Trento sabato prossimo 3 febbraio, alle 18.30 al Centro sociale Bruno in via lungadige San Nicolò 4, e il giorno dopo a Rovereto, alle 18 alla libreria Arcadia in via Fratelli Fontana 16: tappe trentine di un tour che da mesi sta toccando ogni parte d’Italia. E il suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento” (Editori Laterza, 174 pagine, 14 euro) continua a mietere recensioni: un titolo impietoso che dà perfettamente conto del contenuto. Uscito in autunno, è già alla sesta edizione: un successo che Marta Fana, ricercatrice all’Istituto di studi politici Sciences Po a Parigi, non si aspettava. «Il che però rafforza una convinzione - afferma - nonostante la frammentazione e l’individualismo generalizzato, le pessime condizioni di lavoro, ma anche di non lavoro, sono centrali per la maggioranza di questa società».

Il dibattito sul lavoro è centrale nel confronto politico, ma molto poco lo è stato finora in queste prime battute di campagna elettorale: perché?

Da un lato, come spesso accade, si è parlato soprattutto di pensioni e poco altro cercando di intercettare i voti dei meno giovani, perché si tende a pensare che il disinteresse dei giovani per la politica sia un fatto naturale e non un orrore. Ma non è per tutti così: ci sono coalizioni e liste, a volte solo candidati al loro interno, che sul lavoro centrano la propria proposta politica. Poi c’è il modo in cui sui mezzi di informazione viene svolta la campagna elettorale, dove si interroga poco su quali siano i programmi in materia di lavoro.

Le è stata proposta una candidatura in questi giorni? Se sì, perché ha rifiutato?

Sì, diverse. Per vari motivi, alcuni personali e altri più politici. Voglio continuare a fare ricerca e insegnare, che rimane un ruolo politico. Inoltre, penso che ognuno di noi possa dare tanto alle politica senza necessariamente fare il parlamentare, mettendo a disposizione dei processi politici ciò che meglio sappiamo fare con generosità e umiltà.

Scrive nella prefazione che indagare sulle condizioni di lavoro in Italia è una discesa agli inferi: tra le molte categorie che analizza, quale è la più significativa in questo senso?

Sebbene ci siano forme diverse di sfruttamento, tendo a evitare di stilare classifiche, perché appunto la condizione è generalizzata e fare classifiche più che unire divide, inutilmente. Certo è che l’obbligo del lavoro gratuito per studenti, immigrati, soggetti già marginali nel mercato del lavoro mi pare un’aberrazione. Ciò, ripeto, non rende più sopportabili altre forme.

Scrive anche che non si tratta di un fatto inevitabile, ma del risultato di scelte politiche precise: quali?

L’intero processo di riforma del mercato del lavoro dal 1992 ad oggi: dal patto sui salari al pacchetto Treu, poi la cosiddetta legge Biagi-Maroni, i decreti Sacconi del 2001 e 2011, la riforma Fornero, il Jobs Act e il decreto Poletti, la “Buona scuola” e la riforma Gelmini. Anche qui, non credo sia utile la classifica per capire le ragioni di questa trasformazioni, ma il Jobs Act sancisce un punto di non ritorno, istituzionalizzando la mercificazione del diritto al reintegro con un po’ di reddito, cioè l’indennizzo. Ma ripeto, non solo questo.

Quali sono, se ce ne sono, le responsabilità del sindacato?

Avrebbe dovuto lottare molto di più, e anche in modo più radicale, per disinnescare la frammentazione e segmentazione del lavoro. Cedere anche di piccoli passi ha di fatto spianato praterie. Inoltre, il sindacato ha smesso di fare egemonia culturale e produrre quella conoscenza e sapere critico in seno ai lavoratori, indispensabile per resistere a questo stravolgimento. Poi, se posso permettermi, mi pare non ci sia una visione di fondo dei rapporti di produzione e di come questi stanno mutando proprio a partire dalla produzione. Così non si riesce ad avere una visione di indirizzo generale, ma solo vertenziale.

Quanto l’attuale condizione di proletarizzazione del lavoro è legato alla questione giovanile e quanto invece a persistenti strutture di classe?

Se ammettiamo, come credo, che la proletarizzazione dipenda dai rapporti di produzione, allora è la componente di classe che prevale: per capirci, i figli di un operaio oggi non si trovano nelle stesse condizioni del figlio di Briatore. Certo è che per i giovani che si inseriscono in un tessuto deindustrializzato, e con le trasformazioni normative di cui abbiamo parlato sopra, è dura dentro e fuori il lavoro: penso anche al welfare, per esempio.

Esistono vie d’uscita politiche? Che cosa un nuovo governo dovrebbe fare, come prima mossa, per iniziare a cambiare questo stato di cose?

Certo che esistono. E la storia ha urgente bisogno di una spinta di segno radicalmente opposto. La prima cosa sarebbe abolire tutte le forme di lavoro povero: alternanza scuola lavoro, decreto Minniti, tipologie contrattuali come il contratto a chiamata, il tempo determinato acausale, la somministrazione incentivata. Si dovrebbero poi estendere erga omnes i contratti collettivi nazionali e portare sopra una soglia dignitosa tutti quelli che un reddito dignitoso non lo hanno. Inoltre, rimango convinta che bisogna aggredire le esternalizzazioni selvagge nel pubblico come nel privato. Il lavoro è tanto e forse, oltre il fare, c’è molto da studiare con cura per capire la reale situazione in cui versa questo Paese.

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