Vasco Rossi a Rovereto, un concerto «fantasma»
Nel luglio 1982 l’esibizione dell’idolo del rock nei giardini di fronte a quello che sarebbe poi diventato il Mart, davanti a poche centinaia di persone. Ma con i capolavori che l'avrebbero reso celebre: da Albachiara a Colpa d'Alfredo, da Ogni volta a Siamo solo noi
ROVERETO. Altro che maxi stadi da tutto esaurito e ore di coda ai cancelli per poter sperare di arrivare nelle prime file.
Altro che maxi palchi da Guinness con effetti luce pazzeschi, e casse “a manetta” in grado di far esplodere la musica a chilometri di distanza.
Questa è la storia di Vasco Rossi e del suo concerto «fantasma» andato in scena nel luglio del 1982 su uno sgangherato palco per tanghi e mazurke a Rovereto, nella cornice non proprio epica dei giardini “Milano”.
Avete presente? Sono i giardini di fronte al Mart, proprio in mezzo al Corso Bettini: ora c’è l’area giochi per i bambini, c’è il campetto da skate, c’è persino l’area riposo per i cani.
Nel 1982 era un piccolo parchetto - anche un po’ spelacchiato, a dirla tutta - con una minuscola area per le bici e poco raccomandabile alla sera, quando all’improvviso diventava buio e le tenebre e la paura prendevano il sopravvento sulla tranquillità del giorno.
Ma quei giardini, ogni tanto, si trasformavano, grazie alla musica, e iniziavano a brillare al fascino delle prime luci stroboscopiche capaci di cambiare i colori di quello che si aveva intorno, anche se solo per pochi minuti.
Quella lontana estate del 1982 era appena iniziata. Il governo era guidato da Giovanni Spadolini, l’esercito argentino aveva appena occupato le isole Falkland, e tutti avevano ancora gli occhi tristi per la tragica morte di Gilles Villeneuve. L’Italia del calcio era alle prese con lo scandalo delle scommesse, e con un inizio di campionato mondiale in Spagna in cui nessuno credeva.
Proprio in quei giorni, a Rovereto stava per arrivare una leggera brezza rock che col senno del poi si sarebbe trasformata in un incredibile uragano.
I piccoli cartelloni appiccicati per la città recitavano così: “Vasco Rossi tour, giardini Milano, 5000 lire”, nell’ambito della Festa dell’Unità. In mezzo, una faccia tra l’assonnato e il triste di un ragazzo coi capelli lunghi e gli occhiali da sole che qualche mese prima aveva calcato il palcoscenico del festival di Sanremo, arrivando all'ultimo posto con “Vado al massimo”.
Quel giorno, a Rovereto, arrivarono centinaia di persone, più per la curiosità di poter ammirare nella città della Quercia un reduce di Sanremo (a proposito: quell’anno vinse Riccardo Fogli con “Storie di tutti i giorni”, davanti ad Al Bano e Romina con “Felicità”) che per il concerto in sé.
Vasco era già Vasco, ma nessuno - o quasi - quella sera se ne accorse.
L’inizio sembrò davvero fantascienza:. “Ho perso un'altra occasione buona stasera, è andata con il negro, la troia!”. E via con i riff di “Colpa d’Alfredo”, con i suoi “discorsi seri e inopportuni”, con “quell’africano che non parla neanche bene l’italiano”.
Sul palco, con Vasco, altri due mostri sacri della musica italiana dal vivo: un giovanissimo Massimo Riva alla chitarra, capellone come Vasco ma con le gambe talmente sottili nei suoi pantaloni attillati da sembrare due stecchini e Maurizio Solieri, già a suo agio con gli assoli in mezzo alle canzoni. Il pubblico finalmente si scalda, ma in realtà quasi tutti aspettano l’unica canzone conosciuta, quella di Sanremo.
Ma Vasco, sul palco, dispendia magia rock che pochi sembrano apprezzare: “Brava”, “Ogni volta”, “Splendida giornata”. Sono capolavori assoluti, sono pietre miliari della musica ma chi è lì non se ne rende ancora conto.
Sul piccolo palco allestito ai giardini “Milano”, su quello stesso palco su cui il giorno prima qualcuno aveva suonato valzer, mazurke e tanghi, Vasco fa gracchiare la voce fino allo stordimento, cerca un’intonazione che troppo spesso scivola via, ma è già Vasco, è già poesia, è già rock star. Insomma, è già leggenda.
Vasco è lì sul palco con i jeans e una maglietta nera, illuminato da quattro luci colorate quattro che in quel momento sembrano immense.
Per smuovere i trecento irriducibili, parte con le cover di chi ha inseguito la leggenda e l’ha raggiunta, non come lui che da Zocca è arrivato fino a Rovereto senza sapere dove sarà domani, se ci sarà un domani, se sopravviverà a tutto questo.
E via con i Sex Pistols di “God save the queen”, con Chuck Berry e la sua “Johnny B. Goode”, e poi ecco “Cocaine”.
Sesso, droga e rock and roll: Vasco mischia tutto con la rabbia e lo struggimento che lo corrode dentro, e poi esplode quasi a fine concerto con “Siamo solo noi”. Sì, proprio quelli “che andiamo a letto la mattina presto e ci svegliamo con il mal di testa”, quelli “che poi muoiono presto, quelli che però è lo stesso”, “generazione di sconvolti che non han più santi né eroi”.
A morire presto, sarà il suo amico Massimo Riva, che quel giorno a Rovereto spacca i timpani ai tranquilli trentini con gli assoli di chitarra di chi è arrabbiato col mondo. Avrà cinque minuti di celebrità con la Steve Rogers Band (“Alzati la gonna”, ve la ricordate?), e poi finirà corroso dalla droga.
Vasco no, lui sembra immortale già allora, con gli occhi stralunati, lo sguardo perso, la voce che traballa ma che alla fine penetra fino al cuore, grazie a testi che nessuno, in Italia, aveva mai scritto fino ad allora.
Il finale, quando a Rovereto scende la mezzanotte di una normale giornata d’inizio estate, è con “Albachiara”: il Blasco l’aveva scritta tre anni prima, ma nessuno fuori da Zocca sembrava essersene accorto.
La voce attacca quasi sibilando: “Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole”...
Ai giardini “Milano”, mentre la notte si fa fonda, la magia resta quasi sul ciglio dei cancelli. “Qualche volta fai pensieri strani, con una mano, una mano, ti sfiori, tu sola dentro la stanza, e tutto il mondo fuori”.
Il mondo del Blasco è già esploso in tutta la sua incredibile poesia, ma a Rovereto scivola via quasi in silenzio, tra gli applausi quasi obbligati di chi pensa di aver visto l'ennesima meteora del rock.
Qualcuno si avvicina a chiedergli un autografo, che col passare del tempo diventerà un cimelio. Per tutti gli altri, è solo una parentesi, tanto pochi giorni dopo ci penserà l’Italia di Enzo Bearzot a scaldare davvero gli animi con gli scatti fulminei di Paolo Rossi, la calma scultorea di Dino Zoff e del povero Gaetano Scirea, e con l’urlo liberatorio di Marco Tardelli.
Ma a Rovereto, proprio di fronte a un enorme spazio verde che tanti anni dopo si trasformerà in un museo, la leggenda era già realtà, anche se al momento in versione «fantasma».
Vasco saluta, si accende una sigaretta e se ne va. All’indomani, sullo stesso palco, toccherà al complesso di liscio «I Superstar», poi alle Mondine di Bentivoglio con il loro folk padano.
In quei giardini che tornano oscuri e paurosi nella notte che avanza, il Blasco non ci tornerà più. E alle volte sembra quasi di vederlo, nella penombra, tornare un giovane capellone e indirizzarsi su uno sgangherato palco più adatto al liscio che al rock, e cantare a volte sibilando, a volte squarciagola “Eh già, io sono ancora qua”.
Corri Vasco, corri verso la leggenda, corri con tutta la rabbia che hai in corpo. Corri, canta, sogna, e poi torna a correre, più forte di prima.
L’aveva scritto bene, quando compose “La noia” pensando a Zocca, e intanto noi tutti pensando un po’ anche a Rovereto: “E la noia che hai lasciato qui, quella noia che c’era nell’aria è ancora qui, è qui che ti aspetta sai, e tu ora non puoi certo più scappare come hai fatto allora, ora sai che vivere non è vero che c’è sempre da scoprire, e che l’infinito è strano ma per noi sai, tutto l’infinito finisce qui”.