Rovereto, addio al sorriso di Giuseppe Piamarta
Stroncato da un arresto cardiaco il direttore della cooperativa sociale “Punto d’Approdo”. Aveva 51 anni, era stato un attaccante del Rovereto Calcio
Giuseppe Piamarta se n’è andato. Di notte, col volto disteso quasi in un sorriso. E d’altronde tutta la sua vita è stata un sorriso. Alla ricerca della positività, guardando il bicchiere mezzo pieno che c’è in ciascuno di noi, Giuseppe (“Beppe” per gli amici, i tantissimi amici) era alla costante ricerca dell’umanità profonda e amava regalare simpatia. Una simpatia quasi smisurata. Chi lo conosceva (a Rovereto e non solo) gli voleva bene: impossibile non volergliene. Ti faceva scoppiare il cuore di gioia e di allegria. Il cuore. Proprio il suo cuore ieri all’alba si è arrestato. Giuseppe soffriva da tempo di una malattia che aveva iniziato a combattere, con grande vigore interiore, ma che purtroppo ha logorato talmente il suo grande cuore da fermarlo all’improvviso. Davvero all’improvviso e in parte inaspettatamente - malgrado la malattia - perché un po’ di speranza c’era e perché anche venerdì era stato al lavoro, fino a sera.
Giuseppe Piamarta, classe 1964, era il direttore dal 1997 del «Punto d’Approdo», la cooperativa sociale che accoglie donne, anche con bambini, in stato di difficoltà e disagio. Aveva scelto presto di mettersi dalla parte dei deboli. Dopo il diploma di ragioniere, Giuseppe aveva imboccato la strada del servizio alle persone in difficoltà, proprio come fosse una missione, preparandosi con la Scuola superiore di servizi sociali e di lì a poco si era gettato nella mischia come operatore sociale della Cooperativa Girasole.
Che poi gettarsi nella mischia gli veniva semplice, fin da quando ragazzino, prima nei campetti dell’oratorio Rosmini e di Santa Caterina e poi nello stadio Quercia con il Rovereto calcio (dai formidabili anni delle giovanili, alle stagioni felici in prima squadra in Interregionale a metà anni ’80), sgusciava dalle mischie col pallone incollato al piede, dribblando e scartando con un’agilità che faceva impazzire gli avversari (e anche i compagni di squadra). Un’agilità da funambolo che esibiva con un’allegria contagiosa quando, da animatore in parrocchia, giocava a qualsiasi cosa con i più piccoli. Era un mito, il Beppe, per i ragazzini e per le ragazzine di Santa Caterina. Aveva continuato per anni a frequentare la parrocchia, animando la catechesi e soprattutto i campeggi (prima a Fiera di Primiero poi a Monclassico) dove dava il meglio di sé. Era il vero mattatore di quei campeggi. Scherzi, sfide, gite (con un grande amore per la montagna e per le ferrate) ma anche attenta preparazione per gli incontri e i momenti di riflessione. E poi una parola per tutti. Aveva il dono di capire al volo chi aveva qualche preoccupazione e sapeva offrire il suo ascolto. A volte anche ammonendo (seppur scherzosamente), forse con un’inevitabile inflessione all’educazione che aveva assimilato dai genitori, Anna e Giorgio, entrambi maestri elementari, ma sicuramente con una fede che sempre lo ha interrogato.
Poi è cresciuto tantissimo. Sì, al Girasole è cresciuto negli anni in esperienza e in temperamento, irrobustendo altri lati importanti del carattere e consolidando una sua particolare conformazione, un misto di opposti: fermezza sui principi e dolcezza rispetto alle azioni umane. Aveva una solida “cultura del rapporto umano”. Ma anche una consapevole autoironia (che rimane la migliore delle ironie) pur senza soffocare lo spirito agonistico che l’aveva plasmato fin da piccino. E allora ci metteva tutta la volontà per trasformare le cose, lavorava sodo per raggiungere gli obiettivi sul lavoro. E lo spirito agonistico riusciva pure a comunicarlo come stimolo (proverbiali le sue sfide al motto di: “gnanca bom”) per gli ospiti della Cooperativa Girasole. Un metodo “terapeutico”. Al Punto d’Approdo ha dato tutta la sua maturità, la capacità di ascoltare, coordinare, “prevedere”, interagire. Al Girasole ha dato forse le stagioni dell’entusiasmo e del vigore contagioso.
E proprio lì, al Girasole, Giuseppe ha incontrato la donna della sua vita, Fabiola Pozza, la moglie - forte e sensibile insieme, come lui - che ora ha lasciato, con i tre figli, Anna, Gabriele e Davide. Con Fabiola aveva realizzato il suo più grande sogno, apparentemente semplicissimo eppure fondamentale e per nulla scontato: costruire una famiglia. Una famiglia aperta, predisposta all’accoglienza, proprio come il lavoro per Giuseppe e Fabiola, alla ricerca di una pienezza di vita. Me lo dicevano ieri anche i fratelli, Pietro, Maria e Angelo. E l’amico fraterno Enrico Tasini. E i tanti, tantissimi amici che si sono recati a casa sua a Sacco, per vedere per l’ultima volta il suo sorriso. E per fissare nella mente quell’energia positiva che Giuseppe ha voluto donare per tutta la vita. E che ci lascia come monito.
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