Puzza dal Navicello: la rivolta dei nasi a Rovereto

Sabato l'odore nauseabondo gravava come una cappa su tutto il centro


Luca Marsilli


ROVERETO. La testa lo sa, che in qualche modo bisogna pur campare. E il cuore pure, che non si può tenersi sempre e solo la polpa lasciando agli altri le ossa. Ma il naso? E' il naso il problema. E quello dei roveretani, di naso, non ne può proprio più.  Sabato mattina il fetore di marcio che sale dalla periferia sud opprimeva anche il centro storico. Via Dante, Santa Maria, Corso Rosmini. I nasi più fini lo distinguevano chiaramente anche al Mart. Dove pure la puzza sotto il naso è di casa. Lo dice l'avvocato e lo dice la commessa, lo confermano il barista e il vigile urbano, lo ribadiscono il parrucchiere e il nonno vigile. «Capire capisco, per carità. Ma pare di stare in un cassonetto.».  Per il Comune responsabile sarebbe la pur meritoria azione di compostaggio della Pasina. Che dai rifiuti verdi e legnosi di Rovereto e della Valsugana (ospite da quando l'impianto di Levico è stato chiuso: puzzava) ricava terriccio. L'azienda accusa a sua volta depuratore e discarica, i suoi vicini di casa. E' il triangolo delle Bermuda dei nasi roveretani. Tutto necessario, nessuno lo nega. Ma andandoli a sentire uno a uno - i proprietari, i nasi, come quasi tutti coloro che soffrono, non hanno voce - si raccoglie un coro di lamenti che nemmeno il Nabucco.  Trent'anni fa era l'Archifar. Odore acre, terroso e - a naso - malsano. Si mescolava nei giorni giusti con quello dello stoccafisso che veniva ammollato in un magazzino lungo il Leno. Altri tempi. Poi era arrivata la stagione delle abbrustolite di semi di colza dell'oleificio. Ci si svegliava con la sensazione di essere lo stoppino di una lucerna piena d'olio irrancidito. Dopo essersi addormentati con nelle orecchie i rintocchi a morto della campana più grande del mondo, non è che l'umore cittadino ne guadagnasse... Ma era anche l'odore degli opifici e del lavoro. Volendo, un po' il simbolo olfattivo di un'epoca. Tramontata. Archifar, oleificio e perfino il baccalà nemmeno ce li ricordiamo più. E' arrivata l'era dei servizi. E in via Dante e nelle piazze, a quegli odori sgradevoli ma volatili si è sostituito quello meno cattivo ma appiccicoso del pollo allo spiedo e delle friggitrici. Denso che a mezzogiorno le mosche cadono a terra con le ali impiastricciate. Odori nuovi, la città che cambia. Con un solo legame al suo passato: l'odore della torrefazione del caffè. Poco frequente ormai, ma entrato talmente in profondità nella memoria olfattiva roveretana, che quasi ci manca. Quelle mattine in cui ti svegli più nervoso del dovuto e fai volare la sveglia a 4 metri cercando di spegnerla. Poi ti prendi un bicchiere di latte e ti sembra di bere un cappuccino. E' un odore inconfondibile, quasi da copyright. Che è anche lo sfondo inconscio dei ricordi di tanti giorni brumosi. Il cortile dell'asilo, la bici legata alla ringhiera dell'oratorio, l'attesa sotto casa della compagna di classe. Si fa presto a dire odore di caffè... E comunque odore: puzza non lo direbbe nessuno.  E adesso sta puzza qua. Che non dice di cibo e nemmeno di lavoro, che non sa di ricordi ma solo di marcio che avanza. Lasciando stare le metafore, per carità. Ti assale la sera nel dormiveglia, e speri che quell'alito tremendo non sia il tuo. Ti accoglie la mattina e guardi se hai dimenticato l'umido nel sottoscala. Poi esci e il naso urla tutta la sua rabbia: una volta l'Ora portava sentori di notti danzanti e mediterraneo. Di albe luminose. Adesso la tanfa del Navicello.













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