Protesi sostituita, paziente denuncia
Dolore e problemi articolari: 63enne della Val di Fassa sottoposta a un secondo intervento dopo cinque anni
TRENTO. A distanza di cinque anni dal primo intervento è finita di nuovo sotto i ferri per sostituire la protesi all’anca che l’aveva fatta tanto penare. E’ successo ad una donna di 63 anni residente in un centro della Val di Fassa, che recentemente ha deciso di sporgere querela per lesioni colpose, tramite i carabinieri della zona.
La vicenda era iniziata nel 2007. La paziente si era rivolta all’ospedale di Cavalese per farsi operare all’anca e l’intervento era stato eseguito dalla locale equipe di chirurghi ortopedici. La speranza di una soluzione definitiva del problema, però, si era dimostrata vana e nel corso degli anni la donna era andata incontro a una lunga serie di vicissitudini cliniche legate al malfunzionamento dell’articolazione che era stata sottoposta all’impianto: dolori e difficoltà articolari, che però l’ospedale aveva escluso essere attribuibili all’intervento. L’attenzione si è così spostata sulla protesi, il modello “Asr” prodotto dalla ditta americana DePuy, specializzata nel settore, che nel frattempo era stata ritirata dal mercato. L’azienda aveva anche diffuso delle linee guida per istruire i pazienti sulle procedure da seguire per la sostituzione della protesi.
«Un numero di pazienti più alto di prima ha riferito a DePuy di avere bisogno di un secondo intervento chirurgico», precisava la società statunitense invitando le persone potenzialmente interessate a rivolgersi ai chirurghi che li avevano operati per farsi dire quale tipo di protesi fosse stato utilizzato nel loro caso. Un numero verde attivato dallo stesso produttore, inoltre, istruiva sulla richiesta di rimborso delle spese.
Sembra che la paziente fassana avesse sofferto per le conseguenze di un duplice problema: meccanico, legato quindi alla deambulazione, e biochimico. Conseguenze che parrebbero sovrapponibili a quelle causate dal modello Asr: la sua struttura metallica, infatti, avrebbe rilasciato ioni di cobalto, in grado di causare - oltre determinate concentrazioni e in alcuni casi - problemi neurologici e dolori muscolari. I valori rilevati nel sangue della 63enne sarebbero risultati superiori rispetto a quelli massimi indicati dalla stessa ditta.
La donna non ha promosso alcuna causa civile, limitandosi - per ora - ad una denuncia contro ignoti. Un’indagine sul caso è stata aperta dal pm Marco Gallina, che sta acquisendo informazioni in Italia e all’estero. Alcuni mesi fa, infatti, Federconsumatori aveva annunciato la sua intenzione di promuovere una “class action” in America contro la multinazionale cui fa capo la DePuy, tramite il coordinamento dei propri legali con lo Studio Eavens. Il fascicolo trentino, però, allo stato attuale resta contro ignoti. Alcuni aspetti tecnici fondamentali devono essere approfonditi per fare chiarezza sugli eventuali responsabili. Non basta avere utilizzato una protesi DePuy per addebitare in automatico delle responsabilità alla ditta, considerato che non tutte le protesi di quel tipo hanno causato danni ai pazienti. Questa sarebbe anche la linea difensiva della società, che chiede siano compiuti accertamenti caso per caso.
Difficoltà potrebbero profilarsi anche dal punto di vista giudiziario: per evitare che vi sia prescrizione, la patologia causata deve essere tale da durare nel tempo.
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