«L’antidoto resta l’integrazione»
Il sociologo Guolo: processo faticoso, ma con la comunità albanese è riuscito
TRENTO. «Quanto accaduto domenica è prima di tutto un problema di ordine pubblico, e come tale va trattato con fermezza: nessuna città può essere messa a ferro e fuoco da gruppi di delinquenti, quale che sia la loro nazionalità». Renzo Guolo, sociologo dell’Università di Padova, editorialista dei “Repubblica” e del nostro giornale, è tra i massimi studiosi italiani dell’Islam e dei processi di integrazione nelle società multiculturali. E su quanto accaduto domenica in città ha parole nette. Ma, afferma, lo sforzo solidaristico non deve cedere all’esasperazione e ai veleni delle prese di posizione politiche: «I conflitti interetnici vanno governati, perché sono un inevitabile aspetto della modernità che investe il quotidiano. Di fronte agli episodi di violenza a cui ha assistito Trento, l’antidoto non può che essere la rottura della solidarietà comunitaria di questi gruppi di immigrati, sostituita dall’osservanza della legge e dalla partecipazione civica. È un processo faticoso, che ha bisogno di tempi medio lunghi. Ma i risultati si raggiungono». E l’esempio migliore è quello albanese: dopo gli sbarchi di massa di vent’anni fa, per lungo tempo la loro presenza in Italia è stata segnata da alti livelli di criminalità. «Mentre oggi - spiega Guolo - le statistiche indicano che la comunità albanese è tra quelle più integrate e meno caratterizzate da aspetti di devianza».
I fatti di domenica hanno però un carattere specifico: «Non è casuale che gli scontri abbiano riguardato tunisini e africani dell’area subsahariana - è l’analisi di Guolo - pur senza generalizzare, molti settori delle società nordafricane si sentono storicamente superiori, culturalmente e socialmente, ai neri. Il conflitto trasportato qui in Italia, tra immigrati, è comunque una graduatoria della disperazione. Può essere scatenata da fattori contingenti, come il controllo del territorio in relazione a traffici più o meno illegali, ma vi si innestano poi meccanismi di solidarietà etnica indipendenti dalle ragioni iniziali del conflitto. Soprattutto se si tratta di comunità chiuse e non integrate».
È appunto il caso dei rifugiati politici giunti a Trento dopo la guerra in Libia. Che alla propria precarietà di disperati devono aggiungere anche gli effetti della crisi economica: pur con regolare permesso di soggiorno, non trovano lavoro e rimangono così ai margini della società trentina. E trattandosi di persone provenienti da Paesi come Ciad e Niger, sbarcati in condizioni drammatiche in una realtà tanto diversa senza alcun “progetto migratorio” concreto, come ad esempio la prospettiva di ricongiungimenti familiari per stabilirsi definitivamente in Trentino, è chiaro il loro spaesamento. E la loro scarsa volontà di integrarsi. Che porta, si è visto, anche alla violenza più brutale. «Il paradosso - conclude il sociologo - è che episodi di violenza come questi spingono a dire “fuori tutti”, il che non è possibile per ovvi motivi, proprio quando invece maggiore dovrebbe essere lo sforzo di integrazione: solo in questo modo infatti è possibile spezzare, nel nome della legge comune, i vincoli comunitari basati invece su etnia e lingua».
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