«Sono Giuliano Vaia, ho settantasei anni, e quando venne giù Stava ero il capo dei pompieri di Tesero. Avevo quarantasei anni. Ho perso mia sorella e quattro nipoti. Quel giorno stavo tornando dal lavoro: facevo il falegname pavimentista. Ero in macchina e andavo a casa per il pranzo. Erano quasi le 12 e 30. È stato mio figlio Vito, che aveva dodici anni e sedeva accanto a me, a dirmi: “Guarda papà: c’è una nuvola di fumo là, forse è un incendio: avranno bisogno di te!”. Io mi volto e non capisco bene quella nuvola. È bianca. Vado fino al «ponte romano» e scendo: guardo ancora e capisco che è successo qualcosa di enorme. Incontro due persone. Ricordo perfettamente come fosse adesso, sono Dario Trettel e Luigina Andreatta che mi urlano: “È venuta giù Stava”. Che poi cosa vuol dire “è venuta giù Stava”? non si riesce neanche a capire, è venuto giù un paese, una valle? venuto giù? cosa significa? Mi cresce l’agitazione addosso. Per fortuna la caserma dei pompieri era lì a neanche duecento metri. Entro e telefono alla centrale di Trento: “Che cosa è successo esattamente?”. Non lo so, rispondo, temo qualcosa di grosso. “Vada subito in sopralluogo e richiami”.
Prendo la jeep dei vigili del fuoco e salgo per la strada vecchia, sulla sinistra orografica, per capirci. Ed è in quel momento, dopo qualche centinaio di metri, che vedo una cosa che non dimenticherò mai più finché vivo: una distesa di fango infinita. La piana di Stava era come un deserto, un deserto di fango, immerso in un silenzio totale, il deserto della morte, non c’era nemmeno lo svolazzare di un uccellino, non c’era una foglia, solo sabbia e melma... Scusi, ogni volta che ne parlo mi ritorna qui davanti agli occhi. Ho sempre la testa piena di quell’immagine. Soprattutto in giorni come questi, quando si avvicina l’anniversario. Che poi senti che ci sono gli stessi panorami, il cielo dello stesso colore, lo stesso caldo: era caldo, caldissimo quel 1985, proprio come quest’anno in luglio... Vedo quella nube bianca, poi vedo il deserto di Stava, e sento l’angoscia dentro, quell’angoscia, ed è come se rivedessi tanti parenti, tanti familiari, che mi guardano con quegli occhi che mi supplicano. No, no: come si può dimenticare? È una cosa che resta dentro... Scusi, eh, forse è uno sfogo. Ancora adesso, dopo trent’anni... Sì, certo, riprendo a raccontare il viaggio di quei minuti.
Salgo, salgo ancora. Ero solo solissimo. In caserma dei pompieri non era ancora arrivato nessuno e io ho preso la jeep e ho fatto il primo sopralluogo da solo. Sono sceso dalla jeep là, vede là, dove adesso c’è il Centro di documentazione di Stava, appena sopra, là a sinistra. C’era un panorama devastante. Vedo qualche pezzo di casa sommerso. E penso a mia sorella. Ma scendo di nuovo in caserma. Devo scendere. Ho visto abbastanza. In caserma nel frattempo erano arrivati cinque sei colleghi vigili del fuoco. Scattano le operazioni. E da quel momento per due mesi non mi sono più fermato.
Mia sorella aveva la casa una ventina di metri sotto i bacini. Era la prima casa. Guardi la foto: è lì, proprio sotto i bacini. Lo vede come erano diventati alti! Era la casa estiva, ci andavano da fine maggio in poi: in inverno era impraticabile perché era senza riscaldamento, ha presente, erano tempi diversi, no? In casa c’era lei, Elvira, che aveva dieci anni più di me, e c’erano tre figli: Giuliana che aveva 26 anni, Lorenzo di 22 e il più piccolino, Massimiliano, di 13 anni. Enrico, che ne aveva 25, stava salendo dalla strada in macchina. Non li abbiamo più trovati. Le loro salme non sono più state recuperate. In tutto sono settantuno le persone scomparse e mai più ritrovate. Quella di mia sorella, le dicevo, era la prima casa. Subito sotto i bacini. Lei capisce perfettamente che non è rimasto nulla. È uscita un’onda di fango che prima è andata a battere di là come uno schiaffo al lato sinistro della valle, poi ha fatto lo slalom: una sberla a destra, poi di nuovo a sinistra, e a destra e poi s’è calmata, ma era un’onda enorme di alcuni metri più alta delle case. Gli altri tre figli di mia sorella e suo marito non erano lì, per fortuna. Verso le quattordici, iniziati i primi soccorsi a valle, torno su fino in cima. Stiamo aspettando che arrivi da Roma, in elicottero il ministro Zamberletti, per poi far partire tutta la macchina operativa. Ma intanto vado su, provo a vedere se trovo mia sorella. Vado fino a qualche centinaio di metri, dove si può arrivare con la jeep. Scendo, ma dentro quel fango è impossibile starci. Sono andato più dentro che potevo, ma affondavo e i colleghi mi hanno gettato un tronco come appiglio, perché non riuscivo a liberarmi, era come una ventosa. Ce l’ho fatta con fatica, ho dovuto lasciar lì gli stivali. Era un estremo tentativo. Alle tre è arrivato il ministro. C’era il generale del quarto corpo d’armata, c’era l’ingegner Nicola Salvati comandante del corpo dei vigili del fuoco di Trento, c’era l’ingegner Ezio Mattivi, responsabile del coordinamento della protezione civile della Provincia di Trento. Che poi non era ancora una vera e propria protezione civile: almeno non così come è adesso. Pensi che in piazza si erano radunate circa cinquemila persone fra vigili del fuoco, militari, carabinieri, polizia, medici, infermieri e sono rimasti lì fino alle cinque del pomeriggio in attesa di ordini. Bisognava capire che cosa fare: era una situazione inesplorata. Ecco, in quello Stava è servita: da allora la Protezione civile è diventata una vera e straordinaria organizzazione.
A me danno il compito di coordinare il primissimo recupero delle salme: arrivavano ricoperte di melma e noi dovevamo lavarle. Lei capisce. No, non so se capisce. Ogni persona che arrivava io ci vedevo mia sorella. Il medico condotto mi fa: “Giuliano, questo non può essere il tuo lavoro adesso. Finisci l’organizzazione e vai sul campo”. E così ho scelto le persone, ho dato tutti i compiti e poi sono andato a coordinare lo smistamento operativo sul campo, nel fango. E lì è iniziato l’altro calvario: quello dei parenti delle vittime. Venivano da me. Per fortuna c’era l’ingegner Mattivi, che gran persona Mattivi me lo lasci dire, che mi diceva: “Giuliano, ricordati: devi avere tanta, tantissima pazienza”. Ed era vero. Era quella la cosa più importante. Certe mamme, certi papà, certi figli mi chiedevano tre o quattro volte di fare la stessa cosa, di riprovarci, di provarci ancora. Ricordo una ragazza che mi chiedeva se avessi trovato qualcosa di sua madre ogni giorno, almeno quattro o cinque volte al giorno. Io ho reagito? Certo! Per fortuna che ho reagito. Ma forse non poteva che andare così. Facevo parte di un’istituzione che presta aiuto agli altri in forma volontaria: e mi sentivo responsabile, sentivo il dovere di fare tutto quello che potevo senza sosta. Pensi che ero disperato eppure non ho versato neanche una lacrima al primo funerale pochi giorni dopo. Io, che piango per un niente! Sono andato avanti due mesi così, di notte dormivo due ore, all’alba ero già all’opera. Poi, quando è finita l’emergenza, sono crollato. Era una domenica, mi hanno portato all’ospedale. Ho dormito per tre giorni di fila: mi sono svegliato il mercoledì. Avevo di tutto. Ma soprattutto un calo terribile di tensione.
Eh, cosa abbiamo pensato. Tante cose abbiamo pensato. La notte stessa della strage, fra il venerdì e il sabato, verso le tre mio cognato Giuseppe mi dice: “Dai che prendiamo uno di quegli escavatori, un ragno, e andiamo alla casa”. Per cercare mia sorella e i miei nipoti. Eravamo là e dopo un po’ di inutili tentativi Giuseppe si siede a terra sconsolato e mi chiede: “Ti ricordi in aprile? Quando c’è stata quella piccola frana che ha invaso il prato di casa, abbattendo parte del recinto?”. Certo che ricordo, gli dico. Era venuta la Prealpi a mettere tutto a posto, perfetto, come un prato inglese. “Sì - mi fa di rimando - ma ti ricordi che avevo chiesto all’ingegnere custode che cavolo fosse stato? E che lui mi aveva detto: solo un intasamento degli scarichi, te lo ricordi?”. Sì, ovvio che me lo ricordo. “Non dovevamo crederci!!! Nooooo!” urla Giuseppe. E cosa potevamo fare? Non ci aveva mica parlato una persona qualunque, era un pezzo grosso. A noi sembrava una spiegazione plausibile. Mah! Quante volte ci abbiamo pensato!
Poi c’è anche la parte del destino. Quella che s’è portata via il nostro collega vigile del fuoco Lucio Deflorian. Era sul camioncino sulla strada di Stava: ha visto la grande onda, ha gridato: “Giù, giù” ai figli. Umberto, che adesso è avvocato, e Clemente, che è architetto, sono scesi sulla destra e sono saliti da una rampa di qualche metro. Lui, il Lucio, è sceso a sinistra e ha dovuto fare il giro attorno al camioncino. Non ci è riuscito. L’onda l’ha preso in pieno. Povero Lucio. Una questione di un paio di metri. Di un secondo, forse.
Dopo? Eccome che abbiamo parlato di Stava. Sempre ne abbiamo parlato. Per anni non arrivavi a finire un discorso senza che ci piombasse dentro in un modo o nell’altro Stava. Tutto finiva là dentro, dentro quel deserto di fango. Ci ha cambiato tutto.
Prima? Prima Stava era bellissima. Molto più bella di adesso. Lo dicono tutti. La ricostruzione è stata un po’ difficoltosa ma è riuscita bene, eppure non c’è quella magia di allora. Era così verde la Val di Stava, con quelle strade di terra battuta, anche qualche baita semi abbandonata che la rendeva più selvaggia. E poi gli alberghi. Caspita, adesso che penso agli alberghi mi viene in mente quella mamma che è stata ritrovata con il bambino ancora in braccio, bimbo di un anno circa, era avvinghiato al petto: hanno dovuto rompere il braccio per togliere la salma del bimbo dal cadavere della mamma. Sono scene pazzesche.
Poi con la ricostruzione e con i risarcimenti c’è stato anche un periodo brutto e difficile. A Tesero s’è perso un po’ il senso di comunità ed è aumentato l’individualismo. Prima c’è la grande tragedia, poi ci sono altre cose, che dividono. È terribile.
Il Papa è stato un’emozione gigantesca. Ho pianto tantissimo. Quel silenzio e lui che si inginocchia. Che momenti, che brividi. Si sta stufando? Me lo dica, eh?! Perché a volte ho paura che le persone più giovani si stufino, che abbiamo voglia di dirmi: dai, è cosa passata. Eppure io sento il bisogno di ricordare. Io credo che sia un dovere. Sento la responsabilità. Ma come? Ricordiamo ancora la prima e la seconda guerra mondiale. Che differenza fa? Stava è così. Non si può dimenticare».