IL CASO DELLA SETTIMANA

Covid, per i pazienti le cure a casa sono un terno al lotto 

La medicina territoriale doveva salvare gli ospedali dall’assalto dei malati, ma non ci sta riuscendo: rapporti inesistenti tra medici di base e di continuità, procedure macchinose e soprattutto pochi camici bianchi


Luca Petermaier


Trento. Ci era stato raccontato, nel corso dell’estate, che uno degli insegnamenti più importanti della prima ondata di Covid era che dovevamo organizzarci a curare i pazienti in casa per evitare l’assalto agli ospedali. Ma ci siamo riusciti?

I dati dei ricoveri a livello nazionale direbbero di no. Quelli in provincia di Trento (seppur molto alti - ieri gli ospedalizzati erano 299) sono meno drammatici ma comunque preoccupanti. Ma dove abbiamo sbagliato? Cerchiamo di capirlo.

Gli Usca

Il decreto legge 9 marzo numero 14 è il provvedimento che istituisce le Unità speciali di continuità assistenziale. Si tratta di presìdi territoriali di medici chiamati a gestire a domicilio i pazienti che non necessitano di ricovero. Dovrebbe essere istituita una Unità (formata da 2 a 4 sanitari) ogni 40 mila abitanti. In Trentino il calcolo fa 13 Unità, che infatti ci sono. Il problema è che questi medici (per lo più giovani con poca esperienza o addirittura specializzandi) sono oberati di lavoro. Gli interventi sono troppi, stare dietro a tutte le chiamate è impossibile. Ecco perché (a molti sarà capitato o l’avranno udito da conoscenti) dopo il consulto col proprio medico di base possono passare giorni e giorni prima di ricevere a casa il tampone dell’Azienda sanitaria. Tanto che - sempre più pazienti - oggi si stanno rivolgendo a strutture private.

Procedure farraginose

Va però anche sottolineato che la procedura messa in campo dall’Azienda sanitaria non sembra delle più lineari. A prescrivere il tampone, infatti, è il medico di base che comunica le generalità del paziente al Distretto sanitario competente. Qui “la pratica” viene presa in carico e poi rigirata ai medici delle Usca i quali - si badi bene - non hanno alcun contatto con il medico curante del paziente, nè viceversa. «Abbiamo più volte chiesto di agevolare i contatti con gli Usca, ma finora non è stato possibile» - spiega Mauro Larcher, direttore della Scuola di medicina generale. Il risultato è che i pazienti con sospetto Covid perdono ogni contatto coi propri medici (che, per altro, non avrebbero nemmeno i medicinali per curarli) ed entrano nel girone dantesco dei malati da tamponare da parte degli Usca che arrivano quando arrivano e che rischiano di non arrivare proprio se il numero dei pazienti dovesse aumentare ancora.

I medici “tagliati”

A questo punto uno si chiede: “Perché non aumentare le Usca?”. In Veneto, con un’organizzazione più articolata, lo hanno fatto. E in Trentino? L’assessora Segnana ha promesso un rafforzamento fino a 16 Usca. Bene, ma si sa già che non basteranno. E allora perché l’autonomia non si sforza di fare qualcosa di più? Semplice: perché non sappiamo più dove andare a prendere i dottori. «Negli ultimi cinque anni sono stati tagliati una cinquantina di medici di guardia medica in nome dei risparmi. Ora ci farebbero comodo, ma quei camici bianchi, ormai, se li sono presi gli altri e da noi non tornano più» - commenta amaro Nicola Paoli, segretario della Cisl medici.

Tamponi in ambulatorio?

Ecco che, allora, bisogna arrangiarsi con quello che c’è, ovvero sempre loro: i medici di medicina generale. È di qualche giorno fa la notizia che l’Azienda sanitaria ha chiesto loro di venire in aiuto degli Usca (oggi palesemente sottodimensionati per il compito che sono chiamati a svolgere) iniziando a fare tamponi in ambulatorio. Anzi (Trentino del 6 novembre) di fare anche una prima fase di tracciamenti. Oggi è previsto l’incontro decisivo, ma c’è già chi mette in guardia sulla fattibilità del nuovo sistema: «Fare i tamponi in ambulatorio è molto rischioso - sottolinea Larcher - soprattutto per i pazienti che vengono dopo un eventuale positivo. In quel caso si dovrebbe igienizzare ogni volta l’intero ambulatorio. Ecco perché servono spazi dedicati al tamponamento dei pazienti».

Larcher infine lancia un appello all’Azienda sanitaria: «Dovrebbe rendere le procedure un po’ più snelle e soprattutto cercare in tutti i modi di aumentare gli infermieri sul territorio. Potrebbero essere loro la chiave di volta decisiva per aiutarci a gestire l’emergenza, magari affiancandoci nell’immane lavoro di gestione dei tanti pazienti cronici che abbiamo in cura».

 













Scuola & Ricerca

In primo piano