Ateneo, è crollo d’iscritti: la Provincia ora corre ai ripari
Meno 8% in 4 anni. Si studia il sostegno a piani di risparmio delle famiglie. Si farà orientamento fin dalla scuola media
TRENTO. Nel 2010 il 65,6% degli studenti trentini che uscivano dalla scuola secondaria si iscriveva all’Università. Nel 2013 sono scesi al 57,3%. Nonostante la flessione nell’ultimo anno sembra aver rallentato la corsa, il crollo è stato verticale. Dal 2003 al 2012 - ha rilevato il rapporto Fbk-Irvapp sulla situazione socioeconomica del Trentino - le iscrizioni sono passate dal 71% al 60%.
Colpa innanzitutto della crisi economica, che ha spinto gli studenti e le loro famiglie a disinvestire nell'istruzione universitaria, considerata meno redditizia dal punto di vista occupazionale e di reddito. Più facile cercare subito un lavoro, invece di scegliere altri anni di studio con un approdo lontano e incerto. Ma i dati indicano anche che l'ascensore sociale si è bloccato: la contrazione dei ragazzi che decidono di proseguire gli studi ha riguardato solo i figli della classe operaia e della classe media impiegatizia, mentre non ha interessato i figli di dirigenti e liberi professionisti.
Un quadro che ha fatto suonare il campanello d’allarme in Provincia. Il 30° Rapporto sull’occupazione presentato pochi giorni fa conferma il trend (tabella qui sopra): pur considerando che il tasso trentino di passaggio dalla secondaria all’università è più alto di quello nazionale, anche se di solo l’1,6%, il calo preoccupa. «Questa tendenza - spiega l’assessora provinciale con delega all’università Sara Ferrari - può essere letta anche come il risultato di un territorio che offre altro, una formazione professionale di alto livello e molti sbocchi occupazionali per esempio nel settore del turismo». I dati (come si osserva nel grafico) dimostrano del resto che gli studenti usciti dalla formazione professionale hanno retto meglio, rispetto agli altri, le conseguenze della minore domanda di lavoro.
«Ma questo non può farci dimenticare - prosegue l’assessora - che la laurea non è solo un vantaggio per chi la consegue, perché dà competenze più forti e meglio spendibili e migliori possibilità di carriera, ma aumenta anche il livello competitivo di un territorio, e questo è ancora più vero per una provincia come la nostra che ha scommesso sulla ricerca».
Di qui la scelta della Provincia di intervenire per incentivare la scelta dell’università. Il progetto è di promuovere piani di accumulo del risparmio da parte delle famiglie, in coordinamento con le banche e con il sostegno dell’ente pubblico, da destinare alla copertura delle spese per l’istruzione universitaria. Oggi la Provincia finanzia con circa 10 milioni di euro gli interventi per il diritto allo studio universitario, di cui 6,5 milioni per le borse. «Quello che vogliamo fare - spiega Ferrari - è agire per tempo anziché arrivare all’ultimo con la borsa di studio. Questo significa convincere le famiglie dell’importanza della laurea, e per farlo prevediamo che l’orientamento all’istruzione terziaria, sulla base delle attitudini di ciascuno studente e delle prospettive occupazionali, cominci il prima possibile, fin dalla scuola media».
Il progetto è ancora in fase istruttoria, in un confronto tra la Provincia e l’Irvapp (l’Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche diretto dal sociologo Antonio Schizzerotto): è partito il confronto con alcuni istituti di credito a cui spetterà garantire tassi di interesse vantaggiosi, che si sommeranno alla quota che metterà la Provincia.
«I dati ci dicono che oggi se un ragazzo è molto bravo a scuola ma ha difficoltà economiche, l’università la fa lo stesso perché ottiene borse di studio in grado di sostenerlo. E chi non è così forte nello studio ma ha possibilità economiche, viene comunque spinto dalla famiglia a iscriversi all’università. L’obiettivo dunque - chiarisce l’assessora Ferrari - è concentrarsi su quella fascia grigia che non ha voti eccelsi alle superiori ed è in una condizione economica intermedia. Si tratta di una fascia più indecisa che non crede che l’università serva per trovare un lavoro».
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