Guarito dal virus:«Pensare ai miei familiari mi ha aiutato» 

L’intervista. Paolo Naccari, titolare del ristorante “La Montanara” di Canazei, è stato 10 giorni in ospedale, uno dei quali in terapia intensiva. «Accertato il Covid 19 mi sono sentito solo. La lezione? Dedicare più tempo alle persone che si amano» 


Elisa Salvi


Canazei. Una tosse fastidiosa colpisce Paolo Naccari, 54 anni, titolare del ristorante “La Montanara” di Canazei, a fine febbraio. Si cura, su prescrizione medica, con antibiotici, ma non guarisce. Al contrario, giorno dopo giorno, aumentano febbre, inappetenza e spossatezza fino al 18 marzo, quando si aggrava tanto da essere ricoverato per Coronavirus a Rovereto, dove finisce anche in terapia intensiva. Superato quel momento difficile, comincia la ripresa fino al ritorno in valle. È emblematica la storia di Naccari - uno dei 65 contagiati di Canazei - perché, come sottolinea lui, da questa malattia, che non fa sconti a nessuno, si può guarire.

Paolo, quando ha iniziato a sentirsi male?

Avevo la tosse da fine febbraio e mi sentivo stanco. Ma non era strano, al termine di una stagione invernale intensa. Dopo il week end di grande affollamento dell’8 marzo, però, con mia moglie Elena e i miei collaboratori, ho deciso di chiudere il locale. Avevo capito che c’era qualcosa che non andava.

Quando è peggiorata la situazione?

Sono rimasto stabile, con poca febbre e tosse, per una settimana. Il 14 marzo ho chiamato il 112 perché mi ero indebolito, ma, non avendo ancora problemi respiratori, mi hanno consigliato di prendere il paracetamolo. La notte del 17 marzo, però, è stata spaventosa: mi sentivo a pezzi. Ho contattato il medico di base e la mattina dopo sono stato portato in ambulanza a Rovereto, dove dopo diverse analisi mi è stata diagnosticata la polmonite con positività al Coronavirus. Sono stato ricoverato, in una camera senza bagno con altre tre persone, nel reparto di geriatria (adattato per l’emergenza), dove ci sono i casi di media gravità. Lì sono iniziate subito le cure con antivirali e flebo di antibiotici.

Come si è sentito una volta accertato il Covid19?

Solo. In quelle circostanze, ho avuto molto tempo per pensare, specie a Elena e ai miei due figli. Dovevo cercare, a tutti i costi, di ristabilirmi per loro, che per fortuna, seppur in quarantena, stavano bene e sentivo al telefono. Inoltre, sono stati eccezionali i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario di Rovereto: eroi gentili e attenti verso i pazienti. Ogni due giorni, tra l’altro, i medici informano i familiari del decorso del congiunto: è importante per i parenti.

Nonostante la sua forza di volontà, è peggiorato.

Dopo alcuni giorni in isolamento in geriatria, mi sono aggravato. Trasferito in terapia intensiva, sono stato sottoposto a ecografia, emogasanalisi e supportato con 4 litri di ossigeno erogato con una cannula nasale. Sono stati momenti psicologicamente drammatici. Ancora una volta, il pensiero della famiglia mi ha aiutato. Sono riuscito anche a scambiare qualche parola con le due persone, bisognose di supporto respiratorio, accanto a me.

Una crisi durata 24 ore.

Per fortuna il mio fisico ha reagito in fretta: è scomparsa la febbre, mi hanno dimezzato l’ossigeno e sono tornato in geriatria. Dopo alcuni giorni sfebbrato e senza ossigeno, il 27 marzo sono rientrato in valle per la quarantena a domicilio.

Vive in famiglia?

Da solo, in un altro appartamento. Due volte al giorno mi contatta un infermiere per verificare i miei parametri. Per ora procede tutto bene. Dopo il secondo tampone negativo tornerò a casa.

Cosa le ha lasciato questa triste esperienza?

La consapevolezza di quanto sono fortunato: ho una bella famiglia, tanti amici e collaboratori validi (nessuno si è ammalato). Ma anche una lezione: bisogna dedicare più tempo alle persone che si amano e vivere con più serenità. È inutile affannarsi per il lavoro, quando lo stop può arrivare, improvviso, da un virus subdolo, da cui però si può guarire.

©RIPRODUZIONE RISERVATA.













Scuola & Ricerca

In primo piano