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Manaslu, la tragedia ora è un film di Reinhold Messner

A Castel Firmiano l'alpinista ha presentato il docufilm che narra la spedizione sull'Himalaya in cui persero la vita due persone. «È un racconto dell’impresa ma è, ed è questo che conta, un tentativo di ricordare quello che non si dovrebbe fare quando si sale sulle montagne»



BOLZANO. La parete sud del Manaslu era uno dei “problemi irrisolti” dell’Himalaya. Stava lì, da anni, come un guanto di sfida. Raggiungerla? Il sogno dei più coraggiosi. Fino al 1972. Ci arriva Reinhold Messner e ci arriva da solo. E’ con una spedizione tutta tirolese. Scriverà: “Avanti, devo farcela, queste parole di martellano nella testa. Mai come in questo momento la mia vita mi è parsa senza prospettive, senza speranze…”. Per dire della drammaticità di quella scalata: la salita delle esistenze sospese. Sarà stato per quella parete inviolata e infine presa, con le mani e senza ossigeno, per averla dunque sfidata che giunse, subito dopo, una tempesta. La vendetta della montagna. Improvvisa e brutale. Nel ricordo di chi vi finì in mezzo, la porta dell’inferno, una invisibile minaccia che tolse ogni orientamento.

“Non c’era più nulla da vedere, né nord né sud. Mi muovevo solo annusando il vento, nel buio” dirà uno dei sopravvissuti. Su sette, due non ce la fecero: Andi Schick e Franz Jaeger. Gli altri, Reinhold Messner, Hansjoerg Hochfilzer, Horst Frankhauser, Oswald Oetz e il capo spedizione Wolfgang Nairz vissero anni chiedendosi se mai avessero fatto tutto quello era stato loro possibile per salvare i compagni. “Ma restarono sempre dei dubbi” dice oggi Messner.

Che ne ha fatto un libro “Tempesta sul Manaslu” e che il 14 luglio ha presentato il film-documentario che racconta quella conquista e quel successivo e mai riparato dramma: “Sturm am Manaslu”. In anteprima bolzanina.

Ha scelto il suo castello per farlo, Firmiano. Il luogo dei ricordi e delle conquiste, che ora è soprattutto contenitore di culture, immaginario delle vette, invito a rispettare la natura e gli uomini che vivono i suoi territori più lontani e inaccessibili. Uno spazio per sentirsi piccoli ma non soli, come le Alpi di fronte all’Himalaya. Ha detto ieri, il grande scalatore, riconosciuto re degli Ottomila: “E’ un racconto dell’impresa ma è, ed è questo che conta, un tentativo di ricordare quello che non si dovrebbe fare, quando si sale sulle montagne”. E aggiunge, Reinhold Messner: “Occorre sempre assumersi le proprie responsabilità. Sia quando si è lassù, soli o con i compagni, sia quando si è scesi. E ci si ritrova a cercare di capire cosa e come sia successo”.

E’ dunque un racconto sui perchè, il film. Anche sul perchè si torna a salire, nonostante tutto. Lo si erano chiesto, i sopravvissuti, dopo la morte dei loro due compagni. Anche Messner: “Poi ho deciso che era giusto tornare”. Come provano a fare tutti i feriti nell’anima e nei corpi di fronte alla domanda sul senso della salita. Anche dopo discese come quella dal Manaslu. Su quello sperone di roccia che guarda la conca bolzanina, dietro mura antiche “Sturm al Manaslu”, la tempesta sul Manaslu è stato un lungo viaggio dentro il dolore. Nel documentario, immagine dopo immagine, scappava sempre via la vittoria sulla parete sud. L’impresa sportiva in se. Gli occhi e i volti oggi scavati di quei giovani ieri aggrappati alla montagna dentro la tempesta, erano invece ancora lassù, a scrutare nella tempesta, tra la neve che vorticava e bruciava la pelle, alla ricerca dei due scomparsi. “Ad un certo punto mi è stato chiaro: avevo sentito, nel vento, la voce di Franz…” dice uno dei cinque tornati. Lo dice ancora oggi. Sa che probabilmente l’ha udita sul serio: Franz Jaeger che tentava di attirare l’attenzione dei compagni. Poi solo il rumore della tempesta: “Ma io so che l’ho udita…” insiste Horst Frankhauser. Chissà. Erano tutti intenti nelle ricerche sulla via del ritorno, rese impossibili dai turbini di neve.

Reinhold Messner è vicino alla tenda dell’ultima tappa. Chiede a Frankhauser: “Horst, ci sei? Sei tu? E Franz è con te?”. No, non c’era. Partono in due. Uno è Andi Schick. Trovano una fenditura lungo il cammino. Decidono di starci dentro per un po’ provando a vedere se mai la tempesta potesse attenuarsi. Ad un certo punto Andi Schick decide di muoversi: “Bene, io vado”. E si inerpica sulla piccola parete della fenditura. Non tornerà più. Nel film, Horst Frankhauser, muove gli occhi come alla ricerca di qualcosa, di un ricordo o una immagine che evidentemente non lo lascia più in pace. Dice: “Andi si muove, torna fuori. Ecco, ho ancora qui, nella testa, la visione delle sue gambe che salgono e poi spariscono. L’ultimo ricordo che ho di lui sono le sue gambe sospese…”.

Poi Messner sente arrivare i compagni. “Vedo ancora il suo dolore, l’angoscia di Reinhold, quando si rese conto che due dei nostri non c’erano più”. Infine la tempesta cessò. Tutti vedono la luna. Oggi è l’immagine che li percorre ancora: una luna bellissima e più grande, molto più grande di quella che vediamo noi qui, nelle terre basse. E poi un cielo sgombro e lucido senza più una nuvola e la neve di un biancore accecante anche di notte. Il Manaslu li salutava. Dopo, esplosero le polemiche. Anche Messner fu visto come colui che aveva pensato alla vetta più che al resto. Non era vero. Tutti pensavano alla cima e poi, nella tempesta, a ritrovare i compagni dispersi. “Ma probabilmente occorre sempre avere maggiore responsabilità, assumersela sempre, ognuno per la sua parte” ha detto ieri Messner. “Abbandonati? No - dicono ancor oggi nel film quelli che fecero l’impresa - ma le disgrazie succedono. E noi andiamo lassù sperando di no ma poi succedono …”.

 













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