Suxho, l'americano d’Albania che sogna Rio
«Ho perso l’oro dei Giochi di Pechino 2008 per un infortunio contro la Roma di Serniotti»
TRENTO. Se c’è una storia che merita di essere raccontata, tra quelle dei giocatori di Trentino Volley, è sicuramente quella di Donald Suxho. Il cognome è il primo indizio: si pronuncia Sugio, perché il palleggiatore 37enne della Diatec è di origine albanese, ma dal 1995 vive negli Stati Uniti, dal 2001 ha anche il doppio passaporto e da 12 anni gioca con la Nazionale a stelle e strisce.
Un percorso che parrebbe semplice e lineare, ma non lo è neanche un po’. Per questo abbiamo “convocato” Donald in redazione, per farci raccontare la sua appassionante storia.
Donald Suxho, alzatore di Trentino Volley, dov’è nato?
«Sono nato nel 1976 a Korce, una città dell’Albania vicina al confine greco – racconta Suxho – Una località di montagna, ma ad un’ora dal mare, ricca di laghi, un po’ come il Trentino. Sono cresciuto sotto il regime comunista, in un ambiente sportivo, molto ben organizzato, piacevole: papà Peter era stato per vent’anni palleggiatore professionista, era docente universitario di educazione fisica, allenava le squadre nazionali albanesi, mia madre era professoressa d’inglese».
Poi è caduto il regime comunista e c’è stata la prima svolta nella sua vita.
«Alla fine della seconda guerra mondiale mia nonna, americana, aveva perso l’ultima nave per gli Stati Uniti. Il regime sospettava fosse una spia, ha dovuto rimanere in Albania per cinquant’anni, senza poter più rivedere i suoi familiari. Quando è caduto il comunismo, nel ’91, si è subito rivolta alle autorità americane, nel ’92 è tornata negli States e, una volta rimpatriata, ha cominciato a fare i documenti anche per noi. Espatriare per noi è stata una cosa strana, avevamo grossi pregiudizi nei confronti del mondo occidentale: una volta arrivati a Boston, nel ’95, ci è servito un anno di lavaggio del cervello per adeguarci alla nuova realtà degli Stati Uniti. In più, in Albania, dove stavamo relativamente bene, avevamo lasciato tutto. In America non avevamo nulla e per vivere, lì, servono i soldi».
Ci racconti il suo primo impatto con gli Stati Uniti.
«Era il febbraio del 1995, c’erano due metri di neve... Per noi è stato molto difficile. Io pensavo solo alla carriera professionistica, ma negli Stati Uniti la lega professionistica non c’era. I miei cugini mi hanno spinto ad abbandonare i miei sogni, a dimenticare la pallavolo, cercando d’impormi la loro visione capitalistica della vita: per campare servono i soldi, per fare i soldi bisogna lavorare. Io non volevo fare il college e andai a lavorare: di giorno come lavapiatti, alla sera in un’industria dolciaria, tenendomi in forma giocando a livello dilettantistico. Ma era davvero triste. Dopo due anni di quella vita avrei voluto tornare in Europa».
Poi, un’altra svolta, quella vera.
«Sì. Un mio cugino mi disse che conosceva un allenatore della Harvard University. Era un turco che si ricordava di me dai tempi della dei Balcan Championships. Mi ha aperto una piccola porta, quella dell’università. Ma l’università costava un sacco di soldi e ad Harvard vanno solo i cervelloni. Io a scuola ero sempre andato bene, ma non così bene... Ho cercato un altro college, ma costavano tutti troppo. Poi l’allenatore turco mi ha parlato di un possibile contatto con le università di Los Angeles, tutte alla ricerca di un palleggiatore. Mi arrivò una lettera, non capii così bene cosa c’era scritto e la lasciai per mesi in un cassetto. Da Los Angeles mi telefonavano, ma io non rispondevo. Poi, quella lettera finì nelle mani di un mio parente, che si mise a piangere dalla gioia, spiegandomi che un’università californiana mi offriva quattro anni di borsa di studio. A quel punto ho firmato e la mia vita è cambiata dal giorno alla notte. Era l’occasione che avevo sempre atteso, il mio livello è cresciuto».
Come avvenne il passaggio al professionismo?
«A fine 2000 avevo terminato l’università e volevo tornare in Europa. Sono stato contattato per un try out in Finlandia e già impazzivo di gioia. Poi si aprirono le porte della Nazionale americana: il mio allenatore ha contattato Doug Bill, ma a quel punto sorse il problema del passaporto. Per averlo avrei dovuto attendere ancora tre anni, ma a Los Angeles fui aiutato a sveltire la pratica e lo ottenni nel 2001. Così esordii con gli Stati Uniti, a maggio, in Giappone. E da allora ho sempre giocato in Nazionale, con l’unica brutta parentesi delle Olimpiadi di Pechino, alle quali i miei compagni conquistarono la medaglia d’oro: giocavo già in Italia, con Montichiari, e mi ero rotto un tendine d’Achille proprio nel match contro la Roma di coach Serniotti...».
Quando effettivamente riuscì a tornare in Europa da... vincitore?
«Nel 2001, in Polonia, con l’Olsztyn. Fui anche il primo giocatore americano del campionato polacco. Arrivai lì alle 2 del mattino e mi portarono subito... in un McDonald».
E poi cominciò il suo girovagare: Romania, Grecia, Montichiari, ancora Grecia dove ha conosciuto la moglie ucraina, Turchia, Taranto, Russia, Belluno, Argentina e infine Trento. La Diatec, per lei, è un punto d’arrivo?
«È bellissimo giocare a Trento, con una squadra che ha vinto tutto».
Ha 37 anni, fino a quando pensa di giocare?
«Fino alla fine, ma solo ad alto livello. Non voglio giocare in A2 o giocare quando non sarò più in grado di dare il massimo. Il mio obiettivo è giocare a Rio con la Nazionale americana. Mi sono sempre allenato con il gruppo che nel 2008 ha conquistato la medaglia d’oro a Pechino, soffro ancora per l’infortunio che mi ha tolto quel traguardo».
Lei adesso vive a Los Angeles. Di Trento e del Trentino cosa pensa? C’era mai stato prima?
«Ci ero venuto a giocare, ma non avevo visto niente. Adesso sono in Clarina da quattro mesi, ho provato il caldo, il freddino ed il freddo. Mi piace il Trentino, Trento è una città tranquilla e pulita».
Ha preso contatto con altri albanesi di Trento?
«Sì, certo. Ho conosciuto i miei connazionali della pizzeria Groff e ovviamente ho incontrato Orlando Koja: la sua è una famiglia di pallavolisti molto famosa in Albania».
Veniamo alla squadra: le pesa il dualismo con Jack Sintini?
«A me non pesa, anzi, mi piace la competizione. Come sportivo sono cresciuto con questa mentalità».
In Albania o negli Stati Uniti?
«In Albania vai avanti solo se conosci qualcuno, negli Stati Uniti invece gioca sempre il migliore. E a me piace così: la competizione mi spinge ad allenarmi di più, quando manca mi rilasso».
Cosa pensa che manchi, alla Diatec Trentino, per diventare una grande squadra?
«Solo un po’ di esperienza. Sia al Mondiale per Club che in campionato abbiamo buttato via set e partite intere perché ci manca l’esperienza di capire quando è il momento di giocare con la testa o con la forza, non sappiamo ancora chiudere bene le situazioni a nostro favore. Ma è la fase di un normale percorso di crescita».
Scusi, Donald, ma in che lingua pensa?
«Ormai penso in inglese».
E allora thank you, mister Suxho.
@mauridigiangiac
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