l’opinione

Riorganizzare la sanità sul territorio: ecco i tre nodi

La redistribuzione delle cure sul territorio, se correttamente applicata, può essere il vero salto di qualità del settore 


Claudio Buriani


TRENTO. ll Pnrr, piano nazionale di ripresa e resilienza, porterà - sempre che siano rispettati i tempi di realizzazione - un bel po' di risorse nel nostro Paese e anche la Sanità ne sarà beneficiata. Tutti i settori del nostro sistema sanitario avranno benefici da questa imponente immissione di risorse, dagli ospedali al territorio alla tecnologia (enfasi su telemedicina e grandi apparecchiature sanitarie). Al riguardo è d'uopo fare alcune osservazioni di fondo.

Mentre la rete degli ospedali è una realtà definita, complessa ma strutturata, anche se verosimilmente soggetta in tempi non lunghi ad impegnative rivoluzioni tecnologiche (ad esempio la possibilità di operare e diagnosticare a distanza con possibilità di centralizzare importanti attività), la rete territoriale, cioè distretti e medici di famiglia, sarà soggetta negli intenti del legislatore ad un processo di riorganizzazione strategica, teso a garantire ai cittadini una maggiore copertura clinica (ed anche preventiva) prima di giungere al secondo livello della cura, quello ospedaliero.

Per gli ospedali il PNRR prevede in buona sostanza interventi strutturali pesanti (in primis adeguamento antisismico) e adeguamento/potenziamento (più adeguamento che potenziamento) del parco tecnologico, cioè le apparecchiature pesanti sia diagnostiche che terapeutiche. Già un decreto del 2015 ha definito come si deve organizzare la rete degli ospedali, la loro gerarchia clinica. Le multiformi definizioni date alla rete non si discostano dalla logica clinica fondamentale che prevede livelli differenti di capacità di cura: i termini "hub and spoke", "ospedale di insegnamento", "ospedale diffuso", "ospedale policentrico" (l'ultima definizione) non sono che la cartina colorata entro cui si articola la ovvia differente capacità di cura dei singoli ospedali.

Altra cosa, ben più dirompente, è la riorganizzazione delle cure sul territorio. Un decreto del ministero della Salute ne ridisegna l'assetto, definendone modelli e standard. Questa, se applicata, può essere la vera rivoluzione, il vero salto di qualità di un settore che tutti vogliono potenziare ma che resta in fondo inesorabilmente uguale nel tempo. Il decreto si presenta come un dotto elaborato che modella la sanità territoriale ideale, del tutto condivisibile, e prevede una parte descrittiva ed una parte prescrittiva: sulla prescrizione, le cose da fare, si giocherà il vero nodo della questione. Si riuscirà finalmente a riorganizzare e potenziare questa parte del nostro sistema sanitario? Un bel quesito.

Il modello prevede una ampia rete di servizi: centrali per rispondere prontamente ai cittadini, ospedali di comunità, le famose "case di comunità", strutture che potenzialmente possono risolvere una buona parte delle istanze dei cittadini. E' vero che di ospedali di comunità e case della salute (precedente terminologia) se ne discetta da almeno vent'anni! Sono proprio le "case di comunità", elemento di peso del territorio, che suscitano osservazioni.
Prima osservazione. In Trentino ne prevediamo ben 10, alcune più attrezzate (operative sulle 24 ore), altre meno. In verità mi chiedo se non vi sia nelle valli (non a Trento e Rovereto) una sovrapposizione di compiti tra queste case ed il ruolo degli ospedali: entrambi attrezzati per rispondere alle medesime esigenze (eccetto ovviamente le urgenze vere, nelle quali sono necessari presenza dell'anestesista, ricovero ed eventuale trasferimento).

Di certo un approfondimento in tal senso si impone, anche alla luce della necessità di un uso razionale delle risorse, soprattutto umane.
Seconda osservazione. Problema da dirimere è quello della presenza dei medici di famiglia all'interno delle case di comunità: un nodo storico, rompendo l'atavico individualismo di questa categoria. I medici di famiglia devono essere gli attori del livello territoriale giostrando su iniziative a tutto campo (dai contratti a scelte più drastiche).
Terza osservazione. Per fare tutto questo è lecito domandarsi se disporremo delle risorse umane necessarie, sia in Trentino che nel resto del Paese. Dopo la tragica debacle della programmazione del personale della sanità (in primis i medici, sia di famiglia che specialisti, ed in parte anche gli infermieri) c'è da augurarsi che non siano fatti ulteriori errori, creando nuove strutture prive delle risorse umane necessarie. Si prospetta una previsione di 30.000/35.000 infermieri, oltre 15.000 altre unità varie, più un bel po' di medici (di cui almeno 1.500 medici rianimatori per l'aumento previsto di ulteriori 3.500 posti letto di terapia intensiva): questo ad una valutazione di massima.

Un bel pacchetto di risorse umane da formare e da mantenere. Visto che ad oggi siamo in difficoltà a garantire l'esistente, sarà opportuno uno sforzo programmatico e formativo puntuale, pena il disastro entro cui, anche in parte causa covid, ci siamo trovati. In Trentino, ma non solo, si presenta l'occasione per un lavoro di armonizzazione dell'esistente con il nuovo, ragionando in termini di efficienza (non possiamo disperdere risorse) e reale vantaggio per i cittadini. Le prossime elezioni potrebbero essere il banco di prova per delineare scelte, auspicando che non vi sia solo il solito gioco al rilancio.

(Claudio Buriani è un ex direttore sanitario di Apss) 









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