Rifugi alpini verso l’estate tra tamponi e vaccini in ritardo
A due mesi dalla riapertura i gestori si interrogano sul futuro che li aspetta: «Non è un tampone negativo a 48 ore dalla partenza che può dare sicurezza, ma la testa delle persone con il rispetto delle norme». Ma resta la rabbia per i mancati aiuti: «La montagna è stata abbandonata»
TRENTO. La decisione del governo di impedire l’apertura lo scorso inverno ha alimentato un clima di incertezza e timore per la sostenibilità economica delle attività di montagna. In mancanza di supporto da parte dello Stato e, in prospettiva, di un inapplicabile obbligo di tampone o di vaccino (o di entrambi), a due mesi dalla riapertura i gestori dei rifugi si chiedono che futuro li aspetta.
Tampone e vaccini: sentiero impraticabile
A differenza delle strutture alberghiere, la soluzione del tampone sembra non essere adatta all’esperienza dei rifugi, dove la condivisione degli spazi comuni è irrimediabilmente maggiore. «Non è un tampone negativo a 48 ore dalla partenza che può dare sicurezza, ma la testa delle persone con il rispetto delle norme che vengono date, oltre al rispetto anche nostro delle indicazioni igienico sanitarie», ci spiega Roberta Silva del rifugio Roda di Vael.
Responsabilizzare del singolo, dunque, come elemento decisivo per poter garantire l’attività in montagna, perché quanto a norme anti Covid e ulteriori misure di sicurezza i gestori dei rifugi hanno fatto il necessario, e oltre.
Emanuele Tessaro, gestore del rifugio Cima D’Asta Ottone Brentari ad esempio, ha investito migliaia di euro per creare una struttura esterna e garantire un servizio di ristoro nel massimo del distanziamento. «Ognuno attua tutte le procedure al meglio che può fare per il proprio rifugio», sottolinea il gestore.
A rendere impraticabile il tampone obbligatorio nel mondo in quota è anche il fattore incolumità dei frequentatori della montagna. Qui, infatti, dare la precedenza di ospitalità agli “ufficialmente negativi” diventa, in caso di necessità, impossibile.
Duilio Boninsegna, gestore del rifugio Pradidali, rileva anche il problema della discriminazione che l’introduzione di un obbligo di vaccinazione implicherebbe: «Nell’estate non riusciranno a vaccinare tutti, quindi ci sarebbe una discriminazione tra chi ha potuto vaccinarsi e chi no».
In una prospettiva a lungo termine, tuttavia, l’ipotesi di un’obbligatorietà del tampone non viene esclusa a priori, con la premessa che sia introdotto un sistema di controllo, letteralmente, a valle.
«Si potrebbe mettere un presidio medico a Passo Rolle e uno a Fiera di Primiero e chi entra e chi esce deve essere tamponato», così Mariano Lott del rifugio Rosetta.
Il colpo di grazia per l’economia di montagna
Dopo la decisione da parte dello Stato di non permettere l’apertura invernale i gestori temono il ripetersi di un simile dietrofront o l’introduzione di norme ancora più severe. Un problema che tocca tutti i gestori, già provati dai cali di fatturato sostanziali, tra il 40 e il 70% registrati nell’anno precedente per attenersi alle norme anti Covid. «La montagna è stata abbandonata», afferma Mariano Lott e precisa che dallo Stato non è arrivato ancora nessun aiuto. «Dall’inizio della pandemia abbiamo ricevuto un contributo dalla Provincia di circa 2000 euro, previsto per chi riassumeva del personale dalla stagione precedente. Anche la Sat ha concesso una riduzione sull’ultimo affitto. Un segnale positivo, un venire incontro. Non credo che altri proprietari di rifugi abbiano fatto lo stesso».
Dietro all’ultimo stop dello Stato sull’apertura invernale si cela, secondo Boninsegna, una profonda incomprensione dell’importanza a livello economico dell’economia di montagna per l’intero Paese.
L’impatto economico è sostanzioso, considerate le spese e le tempistiche pre-apertura da affrontare: «Noi lavoriamo un paio di settimane prima di aprire. Per aprire un rifugio scialpinistico-alpinistico, tra gasolio, legno per il riscaldamento, l’elicottero e almeno una persona in fase preparativi spendiamo almeno 2000 euro, al netto dei rifornimenti stessi», spiega Guido Trevisan, del rifugio Pian dei Fiacconi, ora distrutto da una valanga, e gestore del Rifugio Ghiacciaio Marmolada.
Si cerca comunque di tenere uno sguardo ottimistico sul prossimo futuro, «non è il momento per piangere, bisogna progettare», così Tessaro.
L’importanza della riapertura dei confini
La vacanza in quota è perlopiù un’opzione scelta da turisti stranieri e i gestori dei rifugi sanno che la riapertura dei confini è una variabile imprescindibile per la ripresa di quest’estate. Se l’affluenza dovesse ancora essere legata al turismo interno del Paese, spiega Roberta Silva del Roda di Vael, questo si tradurrebbe in un minor numero di pernottamenti, in quanto gli italiani valutano o sono consapevoli solo marginalmente di questa modalità di vacanza.
Nel turismo di provenienza estera le vaccinazioni hanno di certo un peso determinante, come lasciano intendere le prenotazioni in arrivo dall’Inghilterra al rifugio Rosetta di Mariano Lott, da quando la campagna vaccinale in UK ha raggiunto un buon andamento.
Tanta l’incertezza e ci si augura che nei prossimi due mesi sarà fatta chiarezza attraverso la definizione di norme e requisiti univoci per rifugisti e frequentatori. Il buonsenso resta l’elemento chiave, anche, si spera, da parte di chi definirà le norme.