la storia

«La paura è stata la spinta per l’oltre». Mariano Frizzera e l’alpinismo

Lo scalatore 84enne si racconta. «Per me alpinismo vuol dire semplicemente passare dei momenti felici in mezzo alla natura. Camminare mi dava un senso di libertà e felicità senza eguali»


Astrid Panizza Bertolini


ROVERETO. L’alpinismo come stile di vita. È questa la filosofia di Mariano Frizzera, che compie oggi 84 anni e tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta è stato uno degli alpinisti più forti d’Italia, assieme ai suoi compagni di cordata, l’inseparabile Graziano Maffei, “Feo” e Paolo Leoni, oggi scomparsi, con cui ha aperto vie di grande difficoltà soprattutto sulle pareti delle Dolomiti.

Nel 1983 è stato iscritto al Club Alpino Accademico Italiano (CAAI), che riunisce gli alpinisti più preparati e motivati del Bel Paese, grazie alla presentazione del suo compagno di cordate “Feo”. La sua “carriera” comincia già negli anni ‘40 quando Frizzera, ancora bambino (classe 1939), partiva da casa sua a Volano con la sola voglia di andare. «È nato tutto quando avevo due anni e per la prima volta sono andato sul Monte Finonchio con i miei zii. - racconta - Ho percorso tutto il tragitto a piedi, senza farmi aiutare. È stato quello anche il mio primo momento di paura, che mi lasciassero solo e qualcuno potesse portarmi via. La paura da allora è sempre stata per me la spinta per andare oltre ed il coraggio rappresenta solo la forza di vincere la paura».

Cosa significa per lei essere un alpinista?
Per me l’alpinismo vuol dire semplicemente passare dei momenti felici in mezzo alla natura. Ho cominciato a camminare da solo a 8 anni, venivo da una famiglia povera dove il cibo scarseggiava e le botte erano tante. Camminare mi dava quindi un senso di libertà e felicità senza eguali.

Ma dove andava da piccolo e da solo?
Non avevo grandi mete, l’importante era camminare. A 12 anni sono arrivato sul Cornetto del Bondone senza sapere la strada. Arrivare in cima è stata una conquista, ma lo è ancora oggi quando raggiungo ogni vetta e soprattutto quando non seguo il sentiero, mi piace perdermi. Poi da adolescente ho cominciato a scalare, la prima corda l’abbiamo comprata in tre amici, unendo i risparmi.

Quali sono le sue ascese più importanti?
Le vie chiodate sulle pareti più importanti che abbiamo aperto io e “Feo” sono 11. Poco più che ventenni abbiamo deciso di compiere un’impresa, scalare le 5 salite più famose delle Dolomiti in un anno. Di solito i “grandi” le facevano in più anni, a causa della loro difficoltà tecnica. Sono la Carlesso della Trieste, la Carlesso della Val Grande (sul Civetta), la Cassin della Ovest di Lavaredo (Tre Cime), il Pilastro della Tofana (via Costantini Apollonio) e la Sud della Marmolada (via Soldà). Assieme a Feo le prime 4 le abbiamo fatte nel ‘64, poi a causa di un infortunio abbiamo rimandato l’ultima al 1969 e abbiamo chiuso il cerchio. Quella la considero una tra le imprese memorabili.

Con Maffei “Feo” e con gli altri suoi compagni come si è rapportato negli anni?
Sono sempre stato felice dei loro successi, non ho mai provato invidia. Ho sempre arrampicato con alpinisti più bravi di me, ma io ero il più forte fisicamente, abituato al sacrificio e alle fatiche. Fino al 1980 il mio compagno di cordata è stato sempre “Feo”, poi mi sono rotto le gambe durante un’ascesa e nei mesi di recupero il mio posto è stato preso da Paolo Leoni, che è poi stato nostro compagno di cordata. Sono sempre stato “fedele” a loro, solo qualche volta, quando non c’erano, andavo con altri. Con Armando Aste, per esempio, ho fatto una via da primo (Invernale della Kennedy), mentre Cesare Maestri mi ha chiesto più volte di accompagnarlo, ma non sono mai andato, però era mio amico, lo sentivo spesso.

Ha parlato di una caduta... come è successo?
Stavo scalando su una cima del Civetta, quando si sono rotti due chiodi che mi tenevano alla parete. Sono volato per 4 metri, con due gambe rotte sono riuscito ad arrivare in fondo alla parete, dove dei tedeschi mi hanno soccorso mettendomi su una porta e mi hanno portato al rifugio. In ospedale mi sono fatto mettere il gesso solo a una gamba perché non potevo rimanere fermo troppo, dovevo muovermi. La sera stessa ero a casa a compilare fatture. In tutte queste avventure, infatti, lei comunque aveva fondato anche la sua ditta artigiana. Sì, sono stato imprenditore metalmeccanico con 15 dipendenti nel momento migliore. Ma non pensi che abbia fatto una fortuna, ho sempre versato fino all’ultimo le tasse che dovevo. Credo che nella vita ci siano due tipologie di persone: i poreti pieni di soldi e i siori senza soldi (i poveri pieni di soldi e i signori senza soldi). Mi piace pensare di appartenere a questa seconda categoria perché è sulle montagne che trovo la ricchezza vera.

In montagna c’è stato un momento in cui ha avuto paura di morire?
Il terrore di morire, di non riuscire più a tornare a casa l’ho vissuto solo alcune volte. Quella che mi ha segnato di più è stata nel 1963. Durante un’ascesa sulla Parete Rossa sopra il Lago di Carezza assieme al “Feo” mancavano solo 40 metri alla cima quando una scarica di fulmini ci ha colpito. Avevamo i capelli dritti dall’elettricità e mi si è fusa la catenina che avevo al collo. Arrivati in cima siamo scesi carponi per evitare di attirare altri fulmini. Fortunatamente non abbiamo avuto conseguenze, né io né lui, ma il medico ci disse allora che eravamo stati fortunati, il rischio era stato altissimo.

Ha raggiunto le più importanti cime delle Dolomiti, ma all’estero dove è stato?
Una trasferta lontana è quella del ’71-’72 al Monte Fitz Roy in Patagonia, dove sono andato con “Feo”, Armando Aste, Franco Solina, Angelo Miorandi e Sergio Martini, che allora aveva 22 anni ma era già fortissimo. Siamo rimasti lì 105 giorni, con il viaggio finanziato e abbiamo preso solo 2 giorni di bel tempo. Non siamo riusciti quindi a raggiungere la cima, ma abbiamo fatto cime secondarie e ho avuto modo di conoscere i miei compagni, questo lo considero un valore. Sono stato anche a “El Capitan”, nello Yosemite. Una parete conosciuta nel mondo, ma le nostre Dolomiti, secondo me, sono più belle.

Come considera l’alpinismo oggi?
Mi sembra che siano pochi i giovani che vogliono stare all’aria aperta. È diventato ormai uno sport la montagna, dove bisogna “avere i gradi” e competere. È un alpinismo diverso da quello che conosco io.

All’età di 84 anni, va ancora in montagna?
Certo. Vado spesso sullo Stivo, parto alle 5 di mattina e alle 8 sono già di ritorno. Le gambe non sono più quelle di una volta ma non mi arrendo. Poi quando arriverà il mio momento, spero che in Paradiso ci siano montagne, altrimenti che se lo tengano!













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