Trovato l'accordo al consiglio Ue per un nuovo patto sulla migrazione
Intesa in extremis nel summit in Lussemburgo, il ministro Piantedosi: «L’Italia non sarà il centro di raccolta degli immigrati per conto dell’Europa. Ma è solo l’inizio». Per l’ok definitivo si dovrà trovare una posizione comune col Parlamento europeo. Dicono no a tutto soltanto i governi sovranisti di Polonia e Ungheria
LUSSEMBURGO. Semaforo verde tra i 27 in Lussemburgo. Ieri sera il Consiglio Affari interni ha trovato l’accordo per approvare i due pacchetti legislativi sulle procedure di frontiera e sulla gestione dell’asilo.
Le norme vanno a comporre il complesso mosaico di provvedimenti di cui si compone il nuovo Patto sulla migrazione.
Col via libera dei 27 il Consiglio ha stabilito il suo mandato negoziale: per l’ok definitivo si dovrà trovare una posizione comune col Parlamento europeo.
Il nodo finale era trovare un testo soddisfacente sulla definizione dei Paesi terzi sicuri dove sarà possibile inviare i migranti che non ricevono asilo.
Soddisfatto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: «L’Italia ha avuto una posizione di grande responsabilità e ha trovato corrispondenza da altri Paesi: abbiamo cercato di rendere attuabili le procedure di frontiera, processo che noi riteniamo debba andare avanti. Riteniamo che sia un giorno in cui parte qualcosa e non solo sia un giorno di arrivo», il primo commento a caldo.
«L’Italia ha ottenuto il consenso su tutte le proposte avanzate nel corso del Consiglio – ha assicurato il titolare del Viminale – In primis, abbiamo scongiurato l’ipotesi che l’Italia e tutti gli Stati membri di primo ingresso venissero pagati per mantenere i migranti irregolari nei propri territori: l’Italia non sarà il centro di raccolta degli immigrati per conto dell’Europa».
Festeggia anche la presidenza di turno svedese: per la ministra per l’Immigrazione Maria Malmer Stenergard «si tratta di un grande giorno: lanciamo un messaggio importante, quando siamo uniti siamo in grado di prendere decisioni non facili ma necessarie».
Fino all’intesa arrivata in serata l’atteso D-Day per il Patto sui migranti rischiava di trasformarsi in un’altra giornata di serrate trattative e rischio fallimento. Non tanto per l’intransigenza dell’Italia, ma per una mancanza di convergenze sui vari punti caldi. Roma si era presentata senza una pregiudiziale «contrarietà» alle misure chiave del nuovo Patto ma sottolineando di avere la responsabilità di correggere una riforma che sarebbe altrimenti «destinata a fallire nella realtà».
La posizione dell’Italia – in quanto Paese portante dei Med5 – è stata giudicata da molti come l’ago della bilancia di questo Consiglio, perché non si possono cambiare le regole della migrazione contro la volontà di chi poi sarebbe chiamato a metterle in pratica. E al momento chiave, a sostenere la posizione espressa da Piantedosi sono stati anche i colleghi di Grecia e Malta, oltre che Austria e Danimarca.
L’Italia aveva aperto la giornata con una pubblica richiesta di negoziati ulteriori su alcuni punti ritenuti chiave per poter rendere la riforma attuabile: una posizione negoziale giudicata «dura» da alcune fonti diplomatiche ma «legittima».
E qui sono scattate le trattative. In Lussemburgo si discuteva l’approvazione del cuore del Patto sull’immigrazione – la procedura d’asilo (Apr) e la gestione dell’asilo e della migrazione (Ammr) – e non l’intera riforma. Contemporaneamente, i 27 si impegnavano a un certo numero di ricollocamenti obbligatori da effettuare ogni anno, o con trasferimenti veri e propri o con contributi finanziari (20mila euro a migrante).
La cosiddetta «solidarietà flessibile».
Il principio – salvo i governi sovranisti di Polonia e Ungheria, contrarie a tutto – era più o meno stato concordato. Poi però ci sono i dettagli. Piantedosi, dopo il primo giro di negoziati, ha ringraziato per «le mediazioni» che hanno portato a miglioramenti sul testo ma ha notato come «sussistano ancora obiezioni al principio di connessione», considerato un punto «dirimente». In parole povere, la questione sul tavolo era quella di individuare Paesi terzi, sicuri ma non di origine, verso i quali portare i migranti espulsi. Alcuni Stati membri, come la Germania, proponevano un’interpretazione molto stretta, altri più lasca.