Viticoltura biologica, un nuovo metodo per l’utilizzo del rame
La ricerca dell’università Cattolica di Piacenza su sollecitazione della Manica di Rovereto: «Un caso classico di economia circolare»
TRENTO. Un nuovo anno si apre per la viticoltura biologica trentina, che ha fra le proprie principali preoccupazioni la difficoltà in taluni anni di rimanere nei 4 kg di rame/Ha imposti dalla normativa comunitaria, anche se c’è la possibilità di pareggiare un anno con l’altro perché è sufficiente rimanere nei 28 kg/Ha nei 7 anni.
«Vi sono certi mesi di giugno molto piovosi che per assicurare una copertura preventiva alle foglie contro la peronospora, si arriva a fare anche 2-3 trattamenti in una settimana, raggiungendo e superando i 20 trattamenti in una campagna di difesa primaverile». Ad affermarlo un rinomato tecnico del settore Corrado Aldrighetti responsabile area tecnica della Cantina Lavis, una delle prime a valorizzare le produzioni biologiche. Questo, sottolinea il tecnico, impone una scelta molto precisa nel scegliere i vigneti sui quali praticare il biologico che non devono essere collocati in zone troppo umide ne troppo basse o con eccesso di vigoria delle viti.
Ma c’è una novità in arrivo, l’Università Cattolica di Piacenza su sollecitazione dell’azienda Manica di Rovereto ha messo a punto una ricerca dalla quale sono già emerse delle indicazioni molto interessanti sulla possibilità di asportare naturalmente buona parte dei residui di rame che rimangono sul terreno «attraverso una tecnica molto semplice e che può addirittura diventare vantaggiosa per l’azienda», come afferma Michele Manica (nella foto), capo settore ricerca e sviluppo dell’azienda Manica.
Il progetto di ricerca all’Università di Piacenza è coordinato dal professor Puglisi, microbiologo del suolo ed al suo fianco opera un squadra interprofessionale all’interno della quale operano esperti di alimentazione animale, di foraggere, dei chimici che con un progetto di economia circolare hanno impostato una serie di attività sperimentali che hanno già portato a selezionare 2-3 essenze foraggere particolarmente vocate a captare le particelle di rame che cade a terra durante il trattamento ed alcuni ceppi di microrganismi che contribuiscono a assorbire meglio dal terreno il rame. «È un caso classico di economia circolare» afferma Puglisi.
Lo stadio della ricerca
«Riteniamo che con le prove mirate di quest’anno potremo considerare conclusa questa fase di ricerca in campo a quel punto dovrà essere adeguata la legislazione che disciplina la materia, e dovranno essere fatte ulteriori prove sperimentali sui bovini anche se abbiamo già accertato come l’apporto di rame nel foraggio è positivo nell’alimentazione».
«Noi», prosegue il professore, «siamo convinti che con questo sistema potremo arrivare ad un equilibrio fra quanto rame viene usato per la difesa e quanto viene asportato grazie ai tagli delle essenze foraggere che abbiamo individuato».
«Per quanto ci riguarda», afferma Michele Manica, «siamo convinti di essere sulla strada giusta per risolvere l’unico problema che oggettivamente abbiamo nella difesa della vite dalla peronospora con il rame, ossia quello di residuo di rame nel suolo, un tema che rappresenta una criticità per le autorità europee».
«Certo», prosegue, «quando le prove sperimentali saranno terminate, sarà nostra cura attivarci assieme a tutti gli altri soggetti interessati a livello europeo che questa nuova opportunità che in fondo è piuttosto semplice naturale possa portare a ridurre se non a risolvere il problema dei residuo del rame da trattamenti nei terreni».
«Sono sette anni che stiamo lavorando ad un progetto di economia circolare e ora siamo convinti che la soluzione del problema rame nel terreno come accumulo da trattamenti sia dietro l’angolo. Anche se sappiamo che poi la ricerca dovrà essere normata a livello legislativo», conclude Manica. C.B.