il processo

«Troppo silenzio sulla ’ndrangheta»

Intervista a Ettore Paris, direttore di Questo Trentino, che si è distinto per una serie di inchieste sulla criminalità organizzata 



TRENTO. Domani è l’ora della sentenza. Il Processo Perfido volge al termine: c’è grande attenzione in val di Cembra per il responso finale. Ma il quadro che emerge dal processo (e dal grande lavoro di intercettazione dei Ros) è chiarissimo: l’infiltrazione della ’ndrangheta è iniziata a cavallo tra fine anni 70 e inizio anni ’80 e poi sono trascorsi quasi cinquant’anni senza che il Trentino se ne accorgesse. A dire il vero in val di Cembra l’attenzione - di una parte della società - è desta da qualche decennio. Ma tutt’intorno c’è stato disinteresse, se non indifferenza, forse anche a causa del procedere silenzioso della “locale” trentina della ’ndrangheta. «Il silenzio che più mi preoccupa - dice Ettore Paris, direttore del mensile “Questotrentino”- è quello della stampa, del sistema dell’informazione trentino: possibile che non ci sia un’informazione adeguata? Un giornalista che si prenda due giorni e si legga 1000 pagine del rapporto dei Ros può capire che cosa succede in Trentino. E informarci tutti». “Questotrentino” è stato in prima linea per anni, a tratti da solo, nel sostenere una battaglia d’informazione sulle ombre che s’addensavano nelle imprese del porfido in val di Cembra. Al processo è presente come parte civile e manifesta così, anche attivamente non solo con il servizio d’informazione, la lotta alle mafie e alla ’ndrangheta.

Paris, perché questo processo è importante?
Vede, i difensori degli imputati tirano acqua al loro mulino talora ignorando fatti eclatanti talaltra affrontando alcuni episodi seriamente ma insistendo su un punto che diventa la loro tesi centrale: la tesi è che questi presunti mafiosi sarebbero dei poveri derelitti, degli asini, dei somari. Macheda, che è il capo, dicono che con la testa non c’è più: minimizzano. E invece non sono quattro derelitti. Non sono certamente le “menti raffinatissime” di cui parlava Falcone, ma sono elementi capacissimi che rispondono alla cosca di Cardeto e che avanzano benissimo dentro il Trentino».

La loro avanzata è dovuta alla “verginità” del nostro territorio rispetto alle associazioni criminali?
Io mi rifarei a ciò che ha detto il pm Davide Ognibene in aula al processo: «Siamo intervenuti fin troppo tardi: li abbiamo lasciati scorrere questa regione dove e quando hanno voluto». Quella del pm è un’esplicita autocritica; la sua lettura è chiara: c’è stato un assalto al tribunale, ossia le istituzioni si sono lasciate infiltrare. E lo si capisce nelle numerose intercettazioni. Esatto. C’è una registrazione dei Ros che intercetta Antonio Fotia che parla con Antonio Serraino, capo della cosca di Cardeto, durante un viaggio in auto a Merano per una vacanza. E mentre passano per il Trentino le frasi sono chiare e nette: «In Trentino c’è mezza Cardeto» e poi dicono che qui «hanno fatto soldi della madonna» e che Trento è una città bianca, cioè linda, “innocente”: cioè è terra di conquista. In sostanza ritengono che qui da noi ci sia un elevato livello di illegalità e che si possa infiltrarsi bene perché non c’è traccia di criminalità organizzata.

Come è avvenuta questa infiltrazione?
Lo definisce bene la prima sentenza: “c’è stato un ingresso silente”... Però poi ci sono stati anche episodi violenti. Ecco. Bisogna distinguere due strategie. C’è una prima strategia, risalente ancora ai primissimi anni, secondo cui era necessario entrare senza dare nell’occhio. C’è Battaglia che si muove qui interpretando bene ciò che voleva la casa madre, ossia un comportamento normale e rispettabile, che costruisce affidabilità, per poi passare all’azione in un secondo momento. Battaglia sale da Cardeto e si inserisce come operaio. Il salto di qualità lo fa con la cava di Camparta (la più grande cava privata del Trentino, forse la più grande del mondo) che compera con i fratelli Odorizzi. Anche la pm Colpani si meraviglia di questa strana alleanza tra il calabrese arrivato dal nulla e i potenti Odorizzi, i maggiori cavatori e referenti politici a livello provinciale.

E perché Battaglia fa l’operazione con gli Odorizzi?
Appunto. In realtà avrebbe potuto comprarsi la cava da solo, visto che Macheda arriva su con una valigia di denari. Ma Battaglia segue la direttiva della casa madre: entrare in modo soft. È un’operazione studiata per accreditarsi, per divenire un cavatore di tutto rispetto. Battaglia poi continua a prelevare aziende, in proprio o più spesso attraverso prestanome, acquisisce, spolpa e poi porta al fallimento. In più sfrutta i lavoratori fino a livelli pazzeschi, tanto che la procura ha ipotizzato il reato di riduzione in schiavitù. Poi c’è la seconda strategia. È quella di Macheda. Diretta. Violenta. La strategia che prevede che i cavatori forniscano due camion di grezzo gratis alla settimana, altrimenti... si minacciano guai seri. Ma c’è l’ordine di Cardeto di starsene buoni e continuare silenziosamente. Poi però c’è il pestaggio. Sì, il brutale pestaggio del cinese Hu Xupai, la cui “colpa” era stata quella di pretendere che arretrati di ben due anni di lavoro - per molto più dei dodicimila euro che chiedeva - gli venissero finalmente pagati. Quello è un vero errore: lì affiora l’organizzazione criminale (cosa che viene poi riconosciuta processualmente).

Perché l’errore?
Per dare un esempio a tutti, probabilmente. Solo che affiorano tante zone opache, anche rispetto al comportamento della stazione dei carabinieri di Albiano. È il segnale di come la ’ndrangheta si sta infiltrando nelle istituzioni. Ecco queste cose dovrebbero essere denunciate con forza sulla stampa. Per tenere vivi gli anticorpi. Per lottare contro questo male. E intanto questi signori hanno affossato il settore del porfido.
P.M.













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