«Smart working, sarà il rilancio di valli e periferie»
Il caso della settimana. Il docente di Pensiero sistemico e studi sul futuro dell’Ateneo di Trento delinea come cambierà la società con il lavoro da casa: «Città policentriche e una nuova sanità»
Trento. Professor Rocco Scolozzi, lei è docente a contratto di due corsi all’interno del master in “previsione sociale” dell’Università Trento. Anche lei sta lavorando in smart working e, lei soprattutto, immagino si sarà chiesto a quali cambiamenti andremo incontro con un lavoro da casa sempre più diffuso e capillare. Ma prima di tutto: lei cosa pensa dello smart working? Rivoluzione o fuoco di paglia?
Si tratta dell’accelerazione di una tendenza già in atto. Un salto evolutivo. Irreversibile.
Quali sono le conseguenze “sociali” più evidenti di questo nuovo modo di lavorare?
Alcune sono già in atto. A Londra si parla di crisi del mercato immobiliare. Lo smart working sta decentralizzando un’intera struttura urbana. Molte aziende stanno dismettendo gli immobili. Questo dà l’idea di un fenomeno difficile da invertire.
Una conseguenza simile si sta registrando anche a Trento, con il crollo degli affitti a studenti universitari...
Certo e sarà così ancora a lungo, visto che l’Ateneo ha scelto di proseguire con le lezioni da remoto.
Immobiliare, ma non solo: quali sono gli altri settori che rischiano di pagare il prezzo più alto allo smart working?
Bar, ristoranti, mense, pubblici esercizi in genere.
Però, forse, altri bar, altri ristoranti o altri appartamenti in zone finora considerate più decentrate godranno invece dei benefici di questa rivoluzione...
Infatti, è il decentramento dei servizi. Benché le valli trentine siano ben popolate, il lavoro da casa alimenterà più servizi allocati fuori dai centri urbani. Questo è inevitabile. E quindi, appunto, più locali, più attività commerciali, migliore mobilità e anche migliori connessioni.
La rivincita delle valli sui grandi centri urbani...
Più che di rivincita parlerei di nuove opportunità per le periferie. È un processo che va coltivato. Diciamo che ora le valli e i sobborghi avranno più carte da giocare nella partita, da sempre impari, contro i centri urbani.
Visto che siamo in clima elettorale, se lei diventasse sindaco di Trento, di fronte a questi fenomeni di profondo mutamento sociale, che scelte assumerebbe?
Trento è una città fortunata perché ha anche delle “periferie comunali”, come il Bondone o le colline, Cadine o Sopramonte. Dunque il capoluogo potrebbe beneficiare in ogni caso del decentramento del lavoro. Molto più di Rovereto, che ha già meno periferie. Fossi sindaco favorirei queste opportunità, decongestionando il centro dall’enorme traffico di passaggio che ogni giorno affligge la città. Certo, dovrei fare scelte dolorose: a nuovi esercizi che apriranno in collina corrisponderebbe forse una profonda mutazione del tessuto commerciale del centro città. Riassumendo: cercherei di favorire un assetto policentrico della città, che vuol dire anche servizi policentrici. Penso alla telemedicina tra quartieri, ad esempio, che tanto successo ha avuto durante il lockdown.
E se fosse governatore di tutto il Trentino, con una responsabilità sull’intero territorio?
Faccio un ragionamento un po’ di parte. Organizzerei un “centro studi di futuro” che analizza gli scenari possibili e aiuta ad assumere le migliori decisioni con impatto a lungo termine. Lo hanno fatto anche alla Commissione europea o in Finlandia, dove esiste addirittura un centro di studi di futuro a disposizione del Parlamento. E poi cercherei di orientare investimenti e contributi in un’ottica policentrica, che superi la dicotomia centro-valli.
A proposito di dicotomia centro-valli, in Trentino si dibatte da anni sul ruolo degli ospedali di valle. In questo nuovo quadro, non è che questi presidi medici tornerebbero ad assumere un’importanza centrale dentro territori che - con il lavoro da casa - sarebbero più frequentati e vissuti?
Come presidi ed erogatori di servizi, di certo potrebbero avere un rilancio. Non credo come erogatori di posti letto. Penso che i reparti iper-specializzati dovrebbero continuare ad essere gestiti negli ospedali centrali, ma nelle valli potrebbero svilupparsi degli hub di distribuzione di servizi di base.
Altro tema centrale è quello dei trasporti. Ammesso che lo smart working sarà una pratica consolidata nel lungo periodo, lei come si immagina gli spostamenti delle persone tra dieci anni e, dunque, come andrebbero ri-orientate le scelte delle politica in questo senso?
Cambieranno completamente i pesi. Le 90 mila macchine che ogni giorni arrivano, transitano e lasciano la città di Trento saranno solo un lontano ricordo. Ci saranno due tendenze opposte. Da un lato continuerà ad aumentare il trasporto di merci. L’e-commerce ha subito una crescita enorme durante il lockdown e il trend continua e accelera. Diverso il trasporto di persone, che seguirà più una svolta “volontaristica”: mi muovo non perché sono obbligato dal lavoro, ma per necessità di vita oppure per scopi ricreativi. Al lavoro, probabilmente, ci andremo con i mezzi pubblici. In questo senso ci sono segnali chiarissimi.
Quali?
È in atto una chiara tendenza tra i più giovani ad usare i mezzi pubblici: oggi i diciottenni che fanno subito la patente sono in costante calo. A Vienna solo il 40% degli adulti possiede un’auto.
Per concludere, professore, dopo dieci anni di smart working saremo più felici o la mancanza di socialità ci condizionerà negativamente?
Dipende da come sarà organizzato il lavoro. Se la politica e le aziende di crederanno, se inventeranno soluzioni innovative, allora lo smart working avrà successo. Altrimenti le incognite all’orizzonte sono tante. Si tratta di due futuri completamente diversi che dipendono dalle scelte o dalle non scelte che faremo adesso.