Rsa di Cadine, operatori positivi «L’esito dei test dopo 5 giorni» 

Focolaio nella casa di riposo. Scoppia la protesta per i ritardi dei referti: i lavoratori, asintomatici e finora sempre negativi al tampone, sono rimasti al lavoro in attesa della risposta: «Come possiamo arginare così l’emergenza?»



Trento. Una decina, fra operatori sanitari e dipendenti, i casi di contagio emersi, nelle ultime ore, nella Rsa di Cadine Casa Famiglia. Ma è polemica per i ritardi che hanno accompagnato la comunicazione delle positività. Sono gli stessi operatori sanitari a protestare e a lanciare anche un grido di dolore: «Come possiamo arginare l’emergenza se le risposte arrivano così tardi o addirittura tre campioni degli ospiti vengono persi?».

I lavoratori della Rsa hanno voluto mettere nero su bianco un disagio che è sempre più marcato: «Questa disarmante inefficienza del Sistema sanitario trentino sta portando al collasso il sistema residenziale». E quindi una domanda che è sulla bocca di molti: «Non ci si poteva organizzare in maniera più efficiente, aprire nuovi laboratori, formare ulteriore personale, agire sulla prevenzione? Ora sul campo, appare tardiva ogni tipo di risposta».

Il ritardo con cui sono stati refertati i test al personale della casa di riposo, soprattutto agli operatori sanitari (c’è chi si è sottoposto a tampone giovedì scorso e ha ricevuto l’esito, positivo, il martedì successivo) ha creato una situazione potenzialmente molto pericolosa, visto che gli operatori - asintomatici, sempre negativi a tutti i test effettuati fin lì (una volta ogni dieci giorni, adesso una volta ogni quattro) - sono rimasti al lavoro (l’alternativa era chiudere la struttura): l’utilizzo dei Dpi e il rispetto delle misure di sicurezza non rappresentano una garanzia al cento per cento.

Gli operatori hanno voluto mettere nero su bianco tutto il disagio che stanno vivendo: «Le Residenze Socio Assistenziali sono state le uniche a seguire protocolli e procedure molto restrittive, perché all’interno di esse persone fragili da proteggere in ogni modo. Noi, come operatori sanitari, eravamo e siamo assolutamente d’accordo, perché a cuore il benessere dei nostri residenti e dei famigliari; tra l’altro Casa Famiglia è stata l’unica ad avere un lockdown molto più rigido rispetto ad altre Rsa. Si cerchi per un attimo a pensare anche alla solitudine di questi residenti, che a volte capiscono, ma spesso non comprendono il perché di questo stravolgimento nei loro affetti. Per mesi non hanno visto nessun famigliare se non in maniera sterile attraverso un video, poi li hanno incontrati per pochi minuti in settimana dietro ad una parete di plexiglass. A volte addirittura sono morti in solitudine solo con noi operatori che in questa fase li tenevamo per mano, davamo loro una carezza, un segno di affetto nell’ultimo viaggio. Noi siamo stati lì a fianco a loro in questa triste solitudine».

La situazione si è aggravata il 22 ottobre, alla notizia del primo contagio di un ospite, che ha messo in moto la procedura con i tamponi a ospiti e dipendenti (inizialmente sono stati trovati sei positivi, a seguire un’altra decina). Esami accompagnati da un ritardo nella fase di analisi e referto. «È accaduto due volte un ritardo di 5 giorni per la ricezione della risposta: non è concepibile». E ancora: «Capiamo che all’inizio dell’emergenza di marzo non si era preparati, il mondo era in balia dell’infezione, ma dopo sei mesi no, si doveva essere preparati a tutto. Con l’utilizzo, fin dalle prime allerte, dei DPI corretti, avendo le informazioni dei risultati dei tamponi in un tempo adeguato. Vorremmo sottolineare che anche noi operatori sanitari abbiamo una vita al di fuori e farci sentire moralmente in colpa, per il fatto che siamo noi a portare l’infezione all’interno delle strutture, non è giusto. Sentirci il peso che i nostri ospiti, che abbiamo curato fin dal primo giorno, muoiono per colpa nostra è pesantissimo; non so se mai riusciremo a dimenticarlo. Noi al di fuori dal contesto lavorativo da marzo abbiamo tenuto una vita molto attenta e previdente, ponendoci professionalmente anche dei limiti a volte pesanti, perché abbiamo una coscienza e un dovere civico che ci dice di tenere in considerazione sempre i nostri residenti, specialmente i più fragili. Ovviamente questa emergenza non è stata solo a Casa Famiglia. Chi ci governa non dovrebbe dare precedenza ai soggetti più deboli? O forse sbagliamo noi a pensare questo? Oppure oggi le istituzioni possono arrogarsi il diritto di decidere chi può sopravvivere e chi no? Richiamiamo, come cittadini e professionisti incaricati all’assistenza tanto applauditi nel passato, Provincia e Azienda sanitaria a maggior attenzione e senso civico, nell’obiettivo di protezione dei soggetti più deboli, come i nostri cari anziani portatori di saggezza e storia, che hanno fatto Grande questa Patria ormai alla deriva»













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