Rivano in California per fare lo scienziato
Luca Comai e la sua genetica d'avanguardia negli Usa: la scelta vincente
RIVA. Anche se vive in California da 35 anni - da quando prese al volo una borsa di studio del Rotary e andò negli Usa a laurearsi, specializzarsi e a fare lo scienziato - Luca Comai, rivano della stirpe della drogheria e della notissima pediatra, a Riva ci viene almeno tre-quattro volte all'anno. Ci viene per trovare papà Pietro (vecchio costruttore di autostrade), i famigliari e gli amici: tra cui anche l'ex sindaco Paolo Matteotti (che nel giro dei liceali resterà sempre «El bòcia»). E ci viene anche da consulente d'alto livello della Provincia, essendo membro del suo Comitato Scientifico. Luca Comai, insomma, è un ricercatore cosmopolita di successo: che contribuisce allo sviluppo dell'innovazione nel Trentino, così come lavora a progetti di valenza internazionale. E' con lui che prosegue oggi il nostro viaggio alla ricerca di personaggi del Basso Sarca, che hanno lasciato il Belpaese: per conoscerli meglio e per capire cosa ne pensano dei giovani che, eventualmente, volessero imitarli. E' passata una vita, o quasi. Ricorda perchè decise di andare a completare l'Università negli Usa? «Sono sempre stato abbastanza avventuroso. Negli anni Settanta, quando sono partito, gli Stati Uniti erano la Mecca indiscussa per la scienza genetica. Era ovvio, per me, che andare a studiare lì era la scelta giusta. Avevo anche già capito che una carriera scientifica in Italia avrebbe dovuto confrontarsi con un sistema abbastanza sclerotico in cui non era facile penetrare». Poi s'è fermato per sempre. Ha mai avuto tentennamenti? Nostalgie? «Mai. Sono sempre stato contento e mi considero fortunato di avere sviluppato la mia carriera qui negli Usa». Magari il suo lavoro esiste anche in Italia... «Senz'altro. Ci sono in Italia ottimi ricercatori nel campo biologico, sia delle piante che biomedico. Ma...» Ma? «Non esistono, credo, le situazioni ambientali che si trovano qui. L' Università italiana ha ancora grossi problemi. Alcuni atenei, come quello di Trento, hanno condizioni migliori ma l'ambiente è ancora molto differente» Ci faccia un esempio. «Il sistema Usa è assolutamente meritocratico. Un giovane professore inizia come Assistant Professor e, se è bravo, raggiunge velocemente una posizione di prestigio indipendente dal ruolo. Le promozioni ad Associate Professor e a Professor viaggiano su rotaie parallele. L'Assistant professor è in competizione solo con sè stesso per la promozione. Non c'è la piramide caratteristica degli atenei italiani e europei». E il trattamento finanziario? «Probabilmente è più vantaggioso che in Italia. Ma c'è un'altra componente strategica dell'ambiente scientifico americano: la rapida traduzione di idee nate nel mondo accademico in iniziative commerciali. Durante questi anni ho partecipato come scienziato o come co-fondatore a varie iniziative di biotecnologia industriale. Non sono ancora riuscito a emulare Bill Gates nei gettiti finanziari, ma queste attività sono grosse esperienze. Molte sono destinate a fallire, ma nel pentolone ne bollono talmente tante che varie sopravvivono, hanno successo e esercitano un impatto benefico sulla società. Sono nate così, da fermenti universitari, le Genentech e le Google, per fare due esempi». Qui in Italia c'è parecchia crisi. Economica, occupazionale, forse anche morale. Molti tirano le somme e consigliano caldamente ai ragazzi di andare a studiare, a formarsi, a lavorare all'estero. «Seguo le vicende italiane e capisco i problemi con cui devono confrontarsi i giovani. Non mi permetto di suggerire ricette generali su come gestire la loro vita. So che io oggi, se fossi un giovane in Italia, rifarei la scelta che ho fatto più di 30 anni fa e che la consiglieri ai miei figli. Non so però se sia una scelta facile o pratica per tutti». Che immagine c'è dell'Italia negli Stati Uniti? Le capita qualche qualche situazione imbarazzante? «Nei primi anni le differenze fra la realtà italiana e quella Usa erano un po' sconcertanti. Con il passare degli anni ho acquisito una visione più globale, diciamo una Weltanschaung, della diversità umana e delle traiettorie storiche che portano al mondo di oggi. Accetto con piacere di essere nato e cresciuto in Italia. Di fronte a critiche anti-Usa, un amico americano mi disse: "...questi criticoni dovrebbero chiedersi quali cose ha fatto il loro paese di cui sono fieri". Se sottoponiamo l'Italia a questo test, mi pare che ne venga fuori abbastanza bene». Perchè? «L'Italia ha avuto forti influssi positivi sul mondo almeno tre volte: nell'era di Roma antica, nel Rinascimento, e nell'era moderna. In quest'ultima ha prodotto lo stile italiano, la cucina, un modo di vivere. Questi contributi sono riconosciuti e ammirati in tutto il mondo, e particolarmente negli Usa. Ci sono, specialmente nella realtà attuale, cose di cui non possiamo essere così fieri (le lascio alla fantasia del lettore). Ma direi che accetto il bello e il brutto, senza trionfalismi o vergogne e senza imbarazzi per il fatto di essere italiano. Anzi, sono soddisfatto e contento delle mie radici». Cosa farà al termine della carriera? Tornerà alla sua vecchia Riva? «Fare il pensionato non mi attrae molto. Al momento ho un team di dieci persone per le quali devo trovare fondi in un ambiente altamente competitivo. E' un attività che consuma energie, stressante. Con l'avanzare degli anni prevedo una riduzione dello sforzo, forse anche di lavorare da solo o con un singolo associato, fare vacanze più lunghe in Italia. Ma continuare a fare ricerca. Morire lavorando come il vecchio cowboy Curly in "City Slickers" è uno dei miei obiettivi. Per il momento però mi sento ancora bene...»