Morta di tumore: nessun colpevole
Cassazione, respinti i ricorsi della famiglia di una donna di Cagnò: seppe della malattia dopo 17 mesi
TRENTO. Una storia tragica di per sè con uno strascico ancora più angoscioso, che per la giustizia (sia penale che civile) si è chiusa con «nessun colpevole». La corte di Cassazione - sezione civile - ha infatti respinto il ricorso presentato dai figli di una donna di Cagnò morta di tumore nel 2010. Una morte causata da errori medici, così hanno sempre sostenuto i famigliari, che avevano puntato il dito sul ritardo (di 17 mesi) nella trasmissione del referto con il risultato degli esami istologici fatti dalla signora. Finita la causa civile, in precedenza la Cassazione aveva respinto il ricorso sul penale.
Per la giustizia, quindi, non ci sono colpe per il destino della donna che aveva travolto anche il marito. Cinque mesi dopo la morte della moglie - aveva 69 anni - con la quale aveva condiviso un lungo cammino, lui si era tolto la vita sparandosi un colpo di pistola in testa sulla tomba di lei, al cimitero di Bolzano. Cinque mesi d'inferno per il marito tormentato dall'atroce dubbio che la sua amata si sarebbe potuta salvare se i medici avessero comunicato le condizioni in tempo.
A portare avanti la causa, i figli della coppia che sono arrivati fino alla corte di Cassazione con i loro appelli. In primo grado il medico era stato assolto. Il «fatto non sussiste», questa la formula utilizzata e ribadita anche in appello. Respinto dalla Cassazione il ricorso. Stesso percorso per la causa civile con la decisione definitiva che è stata depositata pochi giorni fa. «La corte territoriale, con motivazione scevra da qualsiasi vizio logico-giuridico, giunge alla conclusione della assenza di qualsivoglia profilo di colpa, sotto il profilo della negligenza e della carenza informativa, nella condotta dei sanitari della struttura ospedaliera». Così scrive la Cassazione.
Per i famigliari della donna ci sarebbero stati dei ritardi nella trasmissione del referto col risultato degli esami istologici fatti. Né alla famiglia né al medico di base - avevano spiegato - vennero comunicati gli esiti, tanto che si convinsero che il tumore fosse benigno. In realtà era maligno, ma la donna lo venne a sapere con 17 mesi di ritardo. Mesi preziosi - era la tesi dalla famiglia - durante i quali si sarebbe potuto intervenire con terapie che avrebbero potuto aumentare le speranze di vita della signora. Invece la malattia passò dal primo stadio al quarto, diventando incurabile. Nella sentenza della sezione civile della Cassazione si richiama la sentenza penale che «nel confermare le due pronunce di merito di assoluzione dell'imputato per insussistenza del fatto conseguente al difetto della stessa condotta colposa, aveva definitivamente accertato come il comportamento del terapeuta non apparisse censurabile, e che l'assenza di comportamenti rimproverabili esonerasse dall'indagine sull'esistenza del nesso di causalità fra la condotta e l'evento, volta che la stessa paziente, con il suo comportamento, aveva impedito ogni ulteriore intervento terapeutico, pur essendo stata informata, nel corso di una lunga telefonata, della necessità di approfondimenti diagnostico-terapeutici a seguito dell'esame istologico».