LA STORIA

Il dramma Covid vissuto al telefono con i familiari 

Lucia Pilati, medico di terapia intensiva, dal 22 marzo ha tenuto ogni giorno i contatti con i parenti dei malati: «In questa situazione senza precedenti avevano bisogno di qualcuno vicino»


Andrea Selva


TRENTO. Dal 22 marzo all’altro ieri ha timbrato il cartellino dell’ospedale tutti i giorni: fanno 42 giorni di fila in corsia, comprese le domeniche e la Pasqua, un’infinità di tempo trascorso a tenere i contatti telefonici con le famiglie dei pazienti Covid, anche per 12-13 ore al giorno, finché tutti avevano ricevuto un’informazione sul proprio parente ricoverato in terapia intensiva al Santa Chiara.

Dottoressa Lucia Pilati, perché si è presa questo incarico?

Lavoro in terapia intensiva, ma sono anche responsabile del coordinamento provinciale trapianti. Tocca a me tenere i rapporti con le famiglie nel momento delicatissimo in cui bisogna chiedere il consenso per la donazione degli organi. Quando ho visto i colleghi uscire stravolti dai turni in reparto, con i volti segnati dagli occhiali e dalla mascherina, mi sono offerta di tenere i contatti con le famiglie.

Era pronta per questo compito?

Non mi faceva paura parlare alla famiglia di un paziente, ma parlare alle famiglie di 45 pazienti (tanti ne abbiamo avuti in reparto nei giorni più duri dell’emergenza) è tutta un’altra cosa, soprattutto in una situazione mai vista, di fronte a una malattia di fatto sconosciuta e con l’impossibilità di aver rapporti interpersonali diretti.

Come erano le sue giornate?

Cominciavo la mattina presto, partecipavo al passaggio di consegne dei colleghi, in modo da essere informata sulle condizioni di tutti i pazienti e poi prendevo contatto con i familiari. Un lavoro complesso perché nel frattempo il nostro reparto è praticamente triplicato.

Queste telefonate richiedevano molto tempo?

In misura variabile in base alle condizioni dei pazienti: in genere più erano gravi e più la telefonata era lunga. Ma ai problemi del paziente in reparto si sommavano anche quelli dei parenti rimasti a casa.

In che senso?

Nella maggior parte dei casi erano malati pure loro: parlavo con persone che continuavano a tossire e a cui mancava il fiato. C’era una donna malata che aveva il fratello e il padre (morente) ricoverati in due diversi ospedali del Trentino. Quando il padre è morto mi ha raccontato che al funerale ci era potuta andare solo sua cugina. C’era un padre con 40 di febbre che aveva in casa il figlio piccolo, situazioni del genere...

Non ha pensato di condividere questo ruolo con altri colleghi?

Un giorno ho letto un diario di una di queste persone su Facebook e ho visto che si parlava di me come “la dottoressa” che chiamava ogni giorno. Ho capito che per queste famiglie avere un contatto continuo con la stessa persona era importante. Ma non sono stata l’unica a parlare con loro.

Chi altri?

Nella fase finale altri colleghi sono subentrati a me: ora ho un solo paziente che tra il resto sta andando bene e tra poco lascerà il mio reparto. Inoltre c’è un collega (Mattia Barbareschi, direttore di anatomia patologica, ndr), che si è reso disponibile a tenere colloqui con le famiglie che andavano oltre l’aspetto strettamente clinico: per loro parlare con un medico era molto importante.

Che cosa le chiedevano queste persone del proprio caro?

Cose semplici, ma per loro fondamentali: ha gli occhi aperti o chiusi? ha altre persone vicino? c’è qualcuno che passa del tempo con lui? qualcuno potrebbe dargli una carezza per favore?

Ha mai dovuto raccontare bugie pietose?

No, non funziona così: diciamo sempre la verità ai familiari e li abbiamo preparati quando le situazioni dei loro cari peggioravano.

Ha dovuto comunicare molti decessi?

Venti.

Deve essere stato pesante.

Direi drammatico.

Quando è stato il momento peggiore?

Verso fine marzo, quando sembrava che non sarebbe più finita.

E quando ha capito che invece sarebbe finita?

Quando abbiamo cominciato a dimettere i primi pazienti. Era metà aprile. Nelle settimane precedenti c’era stata la sensazione che li avremmo persi tutti e vedere il primo paziente uscire dal reparto è stato un regalo per ognuno di noi: abbiamo capito che il virus si poteva sconfiggere.

Chi le ha dato un mano in questo periodo?

Nei momenti più duri ho avuto alcune chiacchierate con le colleghe della psicologia clinica, che sono anche delle amiche. Ma il grande supporto è arrivato dalla mia famiglia.

Che cosa ha imparato da questa vicenda?Che nessuno può trovare da solo la forza per affrontare un dolore così grande: né i medici, né le donne che erano rimaste a casa (avevamo per lo più pazienti maschi). In questi casi è importante condividere anche il dolore. Ma io ho fatto solo la mia parte mentre i colleghi lavoravano in corsia.

Lo rifarebbe?

Onestamente non lo so.

Pensa di incontrare le persone con cui ha parlato al telefono?

Loro hanno la mia email, la usavano per mandare foto, messaggi e disegni diretti ai loro familiari. Molti di loro hanno detto che mi verranno a trovare, una persona mi ha detto che vuole portarmi dei biscotti. Non so se questo accadrà, ma l’importante è che si siano resi conto che in questa tragedia hanno sempre avuto qualcuno accanto.

 













Scuola & Ricerca

In primo piano